L'amore che torna di Guido da Verona pagina 67

Testo di pubblico dominio

sette. Ma venti volte nella giornata passai per quella strada, nella speranza d'incontrarla, e senza osare di chiederne all'albergo. Avevo la febbre, mi sentivo capace di commettere una sciocchezza, non potevo comprendere questo suo rifiuto. Alle cinque m'andai a vestire; in un baleno fui pronto, quasichè mi fosse mancato il tempo. Abitavo all'«Hôtel Ritz», a due passi dall'albergo di Elena. Era presto ancora per uscire; presi un giornale, una rivista, un libro, — li buttai. Mi diedi a camminare, guardando l'ora ogni cinque minuti, facendo sforzi d'immaginazione per accelerare la lentezza del tempo. Infine mi decisi a scriverle una lettera piena di violenza e di passione, per il caso in cui di nuovo non l'avessi trovata. Non erano tuttavia le sette quando giunsi all'albergo della «Rue Castiglione». Lo stesso portiere venne ad aprirmi, e più garbato ancora, con un sorriso pieno di rincrescimento: — Signor conte, — mi disse, — la signora prega di volerla scusare, ma non potrà scendere stasera, essendo indisposta. Credo anzi che si sia già coricata. Rimasi come trasognato e non seppi nascondere il mio turbamento. — Va bene, — risposi dopo un silenzio. — Allora consegnatele questa lettera... oppure no... Dove potrei scrivere, vi prego? Egli mi condusse nella sala di lettura, mi preparò carta e penna. — Grazie, ora vi chiamerò sùbito. E smarritamente vergai poche righe, scongiurandola di volermi ricevere o di rispondermi almeno, perchè da mesi e mesi l'andavo cercando ed avevo sofferti tutti i dolori per lei. Chiusi la lettera, gliela feci portare, attesi. In fondo alla sala, un vecchio, semisdraiato in una poltrona, sotto il chiarore d'una lampadina elettrica, leggeva un libro rilegato di pelle oscura e lo teneva presso la faccia ingrandendone i caratteri con una grossa lente. Nel sorreggere il libro la sua mano tremava come quella d'un paralitico. Poco discosta da lui, una fanciulla dai capelli biondi, pettinati strettamente, scriveva con rapidità una lettera di molte pagine. C'era su la parete un quadro annerito in una cornice d'oro, e, di fronte, uno specchio incline che rifletteva la stanza. Mi pareva d'essere avvolto nell'imprecisione d'un sogno, soffrivo, ed una vertigine grande scompigliava i miei pensieri. Nessun rumore intorno, tranne lo stridìo di quella penna veloce che grattava la carta ruvida. I miei occhi, senza tregua, si volgevano verso l'uscio. Dopo alcun tempo entrò il portiere; venne a dirmi: — La signora le manderà sùbito la risposta. — Grazie. Presi la penna e mi diedi a scarabocchiar linee sopra un foglio di carta. Egli rassettò alcuni tavolini, accese un'altra lampada, uscì. La fanciulla ed il vecchio, come automi, continuavano, ella a scrivere, egli a tremare. Io, macchinalmente, osservavo i disegni tracciati dalla mia penna, e quando non avevo più inchiostro la intingevo nel calamaio con un movimento nervoso. Mi sentivo in ogni vena pervadere da un'angoscia irrequieta e non potevo muovermi; avrei voluto correre su per le scale, giungere alla sua porta, entrare, vederla, inginocchiarmi o percuoterla... Mi sentivo male: avrei anche voluto fuggire. La lampadina che avevo davanti agli occhi m'ipnotizzava come un puro brillante. D'un tratto, dietro l'uscio, intesi lo strepito leggero d'una gonna; levai gli occhi, le due portiere vetrate s'apersero, ed una donna, che non riconobbi sùbito, mi venne incontro, sorrise. — Elena!... — balbettai come in sogno, e balzai diritto, senza potermi avanzare. In un momento di oscura vertigine, senza chiudere gli occhi, non vidi più nulla nemmeno lei, e quando li riapersi eravamo vicini, ci guardavamo, volevamo parlare, anch'ella un poco impallidita, con i medesimi capelli color del bronzo e dell'oro antico, le pupille stupite, una bellezza immateriale nel viso, lei, lei, quella che avevo amata, quella che avevo invocata nelle mie notti di delirio, lei che si chiamava Elena!... — Grazie, — le mormorai, — grazie! Non vi aspettavo... non ti aspettavo più.... È stata una cosa indicibile! Le tesi una mano, ella mi porse la sua, rapidamente, poi la ritrasse; ci sedemmo. Il vecchio e la fanciulla non avevano forse neppure levata la testa. — Ebbene? — domandò ella, un po' titubante. — Non mi volevi più rivedere?... — le dissi piano, guardandola come per ricuperare la visione della sua bellezza. — Sono scesa infatti per ripetervi questa preghiera, — ella rispose lentamente, chinando un poco il viso. — Ed io, — esclamai sorridendo — io sono venuto per prenderti con me, Elena! Te l'avevo promesso, e questa volta sarà per sempre. Ella scosse il capo con indulgenza, sorrise tranquilla, e chinò gli occhi, mentre, perplessa, intrecciava le dita. Allora, nel guardare quelle mani che avevo tante volte baciate, uno struggimento infinito mi prese, per il desiderio d'avere una sua carezza, su la fronte e su le tempie, com'ella usava, — una sua carezza lieve. Desiderai d'inginocchiarmi, d'abbracciare le sue ginocchia, di nascondere la faccia nel suo grembo e mormorarle piangendo che da lontano avevo imparato l'amore. Ma non potei; la mia bocca rimase muta; e v'era in quel silenzio una dolcezza maggiore di qualsiasi confessione. — Bisognava lasciarmi sola, — ella disse, con una voce gonfia di oppressione. — Ora sarà più doloroso per entrambi. — Ora invece non puoi essere che mia, — le dissi — e la mia vita non fu che un lungo desiderio di te. Ti ho portata via nell'anima, e qualche volta mi è sembrato di morirne. Adesso, Elena, bisogna ricominciare. — No, questo mai! — Senti... — Mai! — ella ripetè con fermezza. Tutte le linee del suo volto esprimevano quasi una impassibile crudeltà; nel guardarla, mi ricordai l'amante chiusa e fiera che in alcuni momenti del nostro amore mi era parso di temere come un'avversaria. — Dunque hai tutto dimenticato? — le domandai sommessamente, con una specie di paura. Ella non rispose; dalla sua faccia china gli occhi si levarono a guardarmi con attenzione lenta, ed era lo sguardo con cui la donna osserva l'amante, dopo l'amore. Volevo domandarle: «Dove sei stata? Che hai fatto? Quali desiderî ti hanno turbata l'anima nel tempo in cui fummo lontani?» Ed ella forse, guardandomi, voleva indovinare le medesime cose. In quel punto la fanciulla ed il vecchio si levarono insieme, traversarono la sala, e restammo soli. — Ascoltami — le dissi, avvicinandomi a lei. — Non ti ho dimenticata un solo momento. Per te ho pianto, mi sono sentito infelice, umiliato, malato. Ti ho scritto e non hai risposto, ti ho cercata e non hai voluto che ti ritrovassi. Ora sono libero assolutamente; nella mia vita non c'è più un pensiero che non ti appartenga; sono pronto a qualsiasi rinunzia e ti domando perdono di tutte le mie colpe, io, che non ho mai chiesto perdono. Adesso, dimmi una cosa, Elena: Mi hai scordato? appartieni ad un altro? Od è per una ragione diversa che tu respingi la mia preghiera? — Infatti, — ella disse, guardandosi una mano, e girando su l'anulare l'anello ch'io le avevo dato, — infatti la ragione è un'altra. Fece una pausa e continuò: — Ti ricordi... vi ricordate? C'era sempre una cosa che vi dovevo dire. — Ebbene dilla ora. Aveva su le labbra un sorriso calmo, e da' suoi limpidi occhi mi guardava pensierosamente. — E poi?... quando bene ve l'avessi detta?... — È un mistero così grande? — Oh no... tutt'altro! — E allora? — Allora ve la dirò più tardi. Va bene? — E soggiunse con volubilità: — Raccontatemi qualcosa di voi, ora. Non vi siete ammogliato? — No. Ella dette un riso breve, sottilmente ironico, e disse: — Perchè? — Ti amavo, Elena, e preferii che la sposasse un altro. — Davvero? si è sposata?... Ma da quando? — Dal mese di Maggio. — Siete arrivato troppo tardi allora. — Oh, no! Sarei giunto forse in tempo, se proprio lo avessi voluto. — E che avete fatto invece? — Nulla. Stetti un mese a Roma, dopo andai a Torre

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Argomenti: due passi,    sorriso pieno,    dolcezza maggiore,    specchio incline,    vertigine grande

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