L'amore che torna di Guido da Verona pagina 28

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che aveva strappato camminando. — Sì! — esclamai con ardore. — Ne sono certo. I miei desideri sono ormai tanto semplici; Elena sola mi colma di una totale felicità. In quel mentre, di là dai cedri che nascondevano la casa, una voce chiamò più volte: — Germano! Germano, dove sei? E subitamente, fra le aiuole che ostentavano al meriggio le meraviglie dei lor mille colori, vidi Elena venirci incontro, simile ad una creatura che portasse, nella sua limpida voce, ne' suoi chiari occhi d'amante, nell'anima sua d'innamorata, un divino soffio della splendente primavera. IV Le campane della gotica Santa Maria di Fondi squillavano a distesa per l'aria solatìa, cantando il mistico inno che celebrava la Festa dei Fiori. Fin dalle primissime ore del mattino le compagnie dei villaggi, di valle o di monte, si erano date convegno su la via di Appia, ed erano andate in gran corteggio portando i fiori all'auspice benedizione. Giungevano. Alcune vestite con abiti dalla foggia gaia, cavalcando asine impennacchiate o cavalli aquilani dalla criniera barbarica intrecciata di spighe verdi, con un mazzo di papaveri ad ogni borchia de' finimenti; altre cantavano in coro, sedendo sopra carretti fragorosi, adorni d'un drappeggio di stuoie rosse; altre compivano il viaggio a piedi, come un gregge in emigrazione, ondeggiando su gli altipiani o scomparendo nelle avvallature, e ciascuno di quella moltitudine recando i fiori del suo giardino, i boccioli delle sue pasture, i mazzi più recenti e le ghirlande più fresche della sua nativa montagna. Era un popolo che si moveva, portando in braccio gli Dei Lari della sua terra verso il Tempio georgico della originaria stirpe, compiendo con rinnovellato sfarzo di paganesimo un rito augurale della sua vita cristiana. Essi andavano a pregare per il solco della zolla generatrice, dal cui grembo scaturivano le biade fluenti, ricchezza ed allegrezza dei raccolti futuri; andavano a genuflettersi per ottenere propizia l'estate, irrigua la possa fluviale, benedetta la natività di ogni seme. Con le mani callose per la fatica dell'aratro e della falce portavano i mazzi come si porta un cero in processione, e le donne facevano con i grembiuli un grembo, per entro adunarvi l'offerta; ovvero, con arte quasi primordiale, avevan intrecciati que' fiori e quelle frasche in modo che si potessero appendere come doni votivi, e foggiati li avevano a somiglianza degli utensili campestri, per l'augurio della messe copiosa. Altre comitive, le più ricche, o forse i parentadi, reggevano canestri colmi di fiori coltivati, offrendo così alla Vergine primaverile una donazione più rara; i lor panieri traboccavano di ogni ricchezza profumata, sorretti per lo più da due giovanette, che in abito uguale camminavano a lato, cantando. Da un poggio eminente sopra Torre Guelfa, nella prima ora dopo il mezzodì, vedevamo ancora sopraggiungere le compagnie dei borghi alpestri, alle quali una più lunga strada ritardava il pellegrinaggio. Ora venivano, accelerando il passo, e chi era sui carri battendo i cavalli con sferze infiorate, mentre stornellavano a voce spiegata, sicchè per l'aria limpida era un gran ridere di canzoni, confuso e misurato insieme col tintinnio delle sonagliere gioconde. Alcune fanciulle reggevano le canestre sul capo, altre avevano le braccia cariche di ghirlande, altre, coronate in fronte, portavano rami d'ulivo. Un bellissimo trofeo, rosseggiante di bacche vermiglie, che al sommo aveva una grande foglia di palma distesa, era portato a spalle da quattro uomini succinti nel costume della terra d'Aquino: molte fanciulle, vestite in abito candido e guidate da una suora, camminavano dietro uno stendardo, avendo ciascuna la faccia velata e le braccia ricolme di bianchissimi fiori. Di quando in quando sopravveniva un'altra schiera e si udivano altre canzoni. Un pastore spingeva la sua pecora lanosa, che aveva tra le corna un ornamento vaghissimo di fiori montanini; la mazza del mandriano era un lungo ramo nodoso avviluppato con rosai selvatici. Così erano scesi dalla montagna, si erano mossi dalle rive del fiume, dalle case dei villaggi, dalle fattorie disperse nella campagna, od anche dalle più povere catapecchie, se pur davanti al limitare avevano un sol palmo di terra dal quale potesse nascere un fiore. Noi pure vi andammo, sul barroccio di Lazzaro, per assistere alla celebrazione del rito gentilissimo. La strada che seguivamo svoltava, dopo un lungo pendìo, su la via Appia; là incontrava una traccia di fiori sfogliati su le recenti orme dei pellegrinaggi, mentre ancora talune comitive dei più lontani contadi sbucavano per i sentieri della campagna volgendo gli occhi ansiosi verso la meta imminente. Fondi appariva dinanzi a noi, nel mezzo del suo «Caecubus acer» che dette i prelibati vini ai circensi ozii di Cicerone, di Attico e di Tiberio, e fin lungi mandava esultanti clamori fuor dai ruderi della cinta romana, ove un popolo rimasto fedele ai geni ed alle consuetudini della sua razza tenace rinnovava i simboli dei padri venerando la secolare divinità della Terra. E la gioia di quella turba semplice, che andava per offrire le sue ghirlande alla Cerere cristiana, si comunicava in noi, aprendo le nostre anime all'allegrezza del simbolo primaverile. Così densa era la moltitudine all'entrar del paese, che, non potendo proceder oltre, dovemmo cercare una rimessa per la cavalla di Lazzaro e procedere a piedi. La via Appia, guernita di bandiere, di palvesi, di giostre aeree, di gonfaloni e di stendardi, continuava in mezzo alle case, verso il Tempio di Santa Maria, dov'era il convegno della festa floreale. Agilissimi festoni d'edera si appendevano da un tetto all'altro, curvi nel mezzo come i tralci delle viti cariche, in guisa da comporre sopra la strada una specie di pergola trionfale, un telaio di gloriose ghirlande, in gradazione dolcissima di colori. Gualdrappe sfarzose pendevano dalle finestre, addobbavano i terrazzi ed i poggioli, cui stavano affacciate le donne procaci che amò Silvestro de' Buoni e che un tempo salirono, adorne di lunghi veli, al convento dei Frati Domenicani per ascoltar le prediche di San Tomaso d'Aquino. Quel giorno, esse ridevano dai poggioli, come da un «mirador» di Siviglia, pettinate alcune alla guisa castigliana, con il bianchissimo collo ignudo e carico di monili. A piene mani gettavano mazzi nella strada, poi si schermivano dietro le stuoie quando una brigata di corteggiatori le assaliva da ogni parte rispondendo alla loro provocazione. Una pioggia di fiori ci accolse al nostro passaggio. Elena, vestita di bianco, alta fra la moltitudine, attraeva lo sguardo dei lanciatori di mazzi, che da lungi la investivano vuotando a gara i canestri pieni. Per un momento la battaglia della strada si rivolse tutta contro di lei, e dovemmo sostare per ripararci da quell'accanimento. Ella rideva, un po' smarrita, serrandosi al mio braccio, fra quel giocondo piovere di ramoscelli fioriti, che oscillavano volubilmente nell'aria prima di caderle ai piedi. Poi fummo liberati per il sopraggiungere di due fanciulle, che, attraversando la strada, con una risata, distolsero da noi l'infuriare della leggiadra battaglia. Erano di ugual statura, brune ambedue di colorito e di capelli, col petto ampio e florido, la bocca invermigliata. Sui lor capelli era profusa una gran copia di petali e di foglie, come accade al passar d'autunno sotto una pergola che sfiorisce; le lor caviglie, costrette da un'allacciatura incrociata più volte, uscivano agili ed esilissime dalle gonnelle succinte. Ma ecco, entrando nella piazza grande, mutata in improvviso anfiteatro, fummo sorpresi da una magnificenza impreveduta. I banchi orticoli, adorni di muschi o di glebe divelte ancor umide dalla terra tenace, componevano in semicerchio un bellissimo cuscino di zolle verdi, che s'interrompeva tra due pali avviluppati d'edere allo sbocco d'ogni contrada, poi saliva ad arco su la gradinata e sul terrazzo della chiesa. I fiori vi giacevano

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Argomenti: divino soffio,    mistico inno,    tempio georgico,    rito augurale,    abito uguale

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