L'amore che torna di Guido da Verona pagina 30

Testo di pubblico dominio

vivevano la vita semplice del pascolo, della semina e della mietitura, tesero le braccia concordi alla soave immagine di Maria, perchè degnasse accogliere le invocazioni della sua grande georgica famiglia. Ed ecco, il sacerdote asperse tre volte i fiori con l'acqua lustrale, mentre nell'atto della benedizione tutto il popolo della gleba s'inginocchiava, e pareva che veramente qualcosa d'indefinibile, quasi una luce di redenzione, piovesse dall'alto su quelle migliaia di fronti, su quelle migliaia di anime, arse dal bisogno di credere, come un terreno asciutto ànsima nell'attesa della rugiada. Allora i due cori di vergini, sorgendo in piedi, presero a cantare. I loro polsi gracili erano allacciati da una catena di fiori nivali ed i loro occhi splendevano come nell'ebbrezza d'un'estasi religiosa. Cantavano con voci squillanti una dolcissima lenta preghiera; su le pause d'ogni salmo tutto il popolo ripeteva in coro: «Beata Vergine Maria, fate la grazia ai fiori!» Subitamente la voce dell'organo si elevò per l'ampiezza del tempio, come una preghiera sovrumana, la quale parve per un momento raccogliere in sè stessa l'adorazione di tutte le cose che riconoscevano un Dio. Modulata nel suo primo sorgere in tono fioco e lamentevole, man mano si espandeva, cresceva, dilagava per l'aria sonora, cullando tutte le tribolazioni, medicando tutte le sventure, persuadendo gli sconsolati alla speranza, i dubitosi alla fede, i poveri alla miseria del loro destino. La voce cantava sola, nel tempio solenne, piena di eloquenze mistiche, fluida e profonda, mesta e giubilante, come un alito, come un'onda, come un grido, irrompendo con tutto il fiato delle sue dieci canne, per dilagare pianamente verso le altezze immateriali della fede, verso le ineffabili armonie dei paradisi cristiani. E quando l'organo tacque, una preghiera di vergine fu cantata nel coro, da una bocca invisibile, da una voce che pareva sapesse attingere nei più profondi enigmi dell'amore, del sogno e del dolore le sue divine ispirazioni. Ed era trillante come una squilla d'oro, liquida e limpida più che non sia la musica di una polla d'acque scaturienti, morbida come una piuma che vola. Dopo avere distesamente spiegata la impareggiabile virtù del suo canto, dolcemente moriva in un succedersi di note vanevoli, come un'aria che scivoli tra le corde di una cetra sospesa, come una foglia che finisca di scorrere sopra l'arena, come una fontana che cessi di piovere dentro una profondità. E i fiori anch'essi morivano, bevendo l'ultima goccia di rugiada serbata nel càlice come una perla; morivano profumando col supremo loro effluvio la imminente sera del tempio, al chiaror scialbo de' cerei, essi, che adoravano il sole. E v'era, nell'agonìa di quelle anime floreali, la tristezza inconsolabile delle cose che hanno avuta una magnificenza caduca, la disperazione delle creature che sono vissute inutilmente, senza perpetuare la vita. Una grande malinconìa ci serrò il cuore; i nostri sensi, ebbri di profumo, provarono un lento spasimo, che ci fece d'un tratto impallidir entrambi, Elena ed io, guardandoci. All'ombra di una colonna ella si strinse tutta contro di me, cercandomi nascostamente le mani. Allora, davanti ai fiori che morivano, agli incensi che fumavano, al bisbigliar delle preghiere sommesse, cauti e paurosi ci baciammo, sentendo per tutte le vene correre il brivido di quel peccato soave. V Fabio era partito due giorni dopo, con la promessa di compiere la sua missione e di darmene tosto notizia. Che sarebbe avvenuto? Nè io volevo domandarlo a me stesso, nè, pur volendo, l'avrei saputo immaginare. Eravamo assai turbati, Elena ed io, nell'attesa del triste avvenimento. La consueta lettera di Edoarda giunse anche il giorno appresso, e poichè sapevo che sarebbe stata l'ultima, ebbi nel leggerla un turbamento insolito, quasi una indefinibile paura. Sembrava che, per una intuizione vaga, Edoarda presentisse la imminente sciagura, e le sue parole tradivano la mortale ansietà di quelle ore, nelle quali ci si attende ad un male certo, benchè ignoto, e si sente sopraggiungere il passo della persona che ci dovrà colpire. «Fra due mesi o poco più, — scriveva Edoarda — il mio lutto finisce. Mancano esattamente ottanta giorni — (ella contava i giorni!...) — al tempo da noi fissato per le nostre nozze. Io, per quel giorno, vorrei essere morta. Le nostre nozze... che crudele ironia! Come mai ho potuto una volta credere alla possibilità di questo sogno assurdo? E però mi ricordo ancora, come in una visione che non appartenga più alla mia vita, la sera in cui fu data questa promessa, e ti rivedo ancora, intento a sfogliare un calendario, un piccolo calendario di pelle rossa, con sopra, in miniatura, una caccia inglese. Era dell'anno passato e mi sembra che fosse di vent'anni fa. Tu hai voluto scegliere il 18 Luglio... un anniversario. Ti ricordi. Germano?... già: un anniversario! Tu, che sei un uomo ragionevole, dimmi: perchè vi sono cose al mondo che non si possono dimenticare? Perchè un'anima prende un'altra, la stritola come in una morsa e poi la butta via? Perchè vi sono coloro che amano sempre e coloro che non amano più?... «Il primo giorno che ti ho veduto, circa tre anni or sono, tu guidavi al Pincio due cavalli, due morelli, che si chiamavano Bab e Nabab. Avevano le collane bianche, un mazzo di viole ai paraocchi. Non ti conoscevo allora, non sapevo chi fossi. Ma tu mi hai guardata, e, forse pensando ad altro, hai sorriso. Non so perchè, mi è rimasto sempre nella mente il sorriso che avevi quel giorno: freddo, cattivo, e però pieno di fascino. Eri, quel giorno, crudele come oggi, crudele senza volerlo, perchè nascondi nell'anima una crudeltà involontaria, che sente il bisogno di godere delle sofferenze altrui. «A quel tempo ero bella io pure: adesso non lo sono più; mi hai consumata; e, forse per questo, non posso come una volta illudermi di piacerti ancora. Mi cadono i capelli. Quando vi passo il pettine, la mattina, vi rimangono a ciuffi... Che importa? Se non debbo essere tua, perchè mi piacerebbe rimaner bella? Mi hanno detto che la donna per la quale ti sei battuto è di una bellezza maravigliosa. Certamente, se io fossi come lei, mi avresti amata sempre. Germano, come la vorrei vedere? M'hai scritto che ha lasciato Roma, che non l'hai più incontrata.... Dimmi: è vero? è proprio vero? Ho sognato questa notte ch'ella fosse teco a Torre Guelfa. Non conosco la tua casa; ma l'ho veduta come tu me l'hai descritta: dev'essere così. Perchè ho fatto un simile sogno? Dio!... non è possibile! Dimmi, Germano, dimmi che almeno questo non è vero! «Eppure mi ricordo sempre una tua frase, che certo hai dimenticata. Fu nei primi tempi, una sera, in casa della contessa Falconieri; e tu le facevi la corte, anzi dicevano che tu ne fossi l'amante. Ella ti pregò di scrivere un motto in un suo libro d'ore. Tu hai scritto così: «Passare, passare passare... ineffabile vita!» E la contessa leggendo rise, poi ti disse qualcosa a bassa voce, nascondendo la bocca dietro il ventaglio. «Passare, passare!...» Tu hai fatto questo, Germano, ed io mi sono lasciata travolgere dalla tua fuga. «Poi mi ricordo anche un'altra tua frase, che hai scritta in un mio libro. Diceva: «L'anima è qualche volta come la primavera: essa ritorna, e ritorna con tutti i suoi fiori.» «Io non credo più a nessuna primavera; dentro me tutto finisce. Ormai non sono che la tua tristezza, povero amore.... «Quando lascerai Torre Guelfa? Mi sembra che tu non debba ritornare mai più, almeno per me. «Mai.» Che orribile parola è questa! Com'è piena di vuoto! Perchè vi sono alcune parole che fanno tanto male all'anima di chi soffre, ed appunto sono queste parole, che dicono «mai», che dicono «sempre», che dicono «addio?» Perchè? Io mi sforzo d'immaginare cosa potrà essere la mia vita il giorno che verrai per dirmi: «È finito... », il giorno in cui ti vedrò uscire dalla mia casa per l'ultima

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Argomenti: vita semplice,    soave immagine,    tono fioco,    impareggiabile virtù,    imminente sera

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