L'amore che torna di Guido da Verona pagina 65

Testo di pubblico dominio

s'era seduta ella pure, in un pomeriggio di sole, volando tra i filari di pioppi che s'inseguivano in una fuga opposta, come sbarre di un immenso cancello... Apparve il giardino, il viale a pergolato, la spalliera di rose, la facciata immensa della casa, cui avevano posto, davanti alla scalinata, un gruppo di limóni in grandi vasi di argilla rossa; ed apparve l'atrio d'ingresso, non illuminato ancora, ma dove uno specchio, nel fondo, acceso in pieno dalla luce crepuscolare, pareva una finestra aperta sopra una limpida immensità. La figlia di Lazzaro aveva messa nei vasi una profusione di fiori ed aveva preparato il gran letto nuziale nella camera dove mi sembrava ch'Elena camminasse ancora, facendo sul pavimento con le sue pianelle un rumore frettoloso e lieve. Mi sentivo da tutte le cose circostanti piovere nell'anima una morte lenta, ed avrei voluto, in quel letto profondo, su quei cuscini che per me sapevano de' suoi capelli, addormentarmi nel sonno dal quale più non ci si desta, come colui che sia giunto alla meta ultima del suo pellegrinaggio. Per venti giorni trascinai nella mia casa una orribile vita. Scrivevo ad Elena lunghe lettere che poi non le spedivo; mi facevo mandar da Roma i giornali parigini che ritenevo potessero parlare di lei, ma senza trovarvi alcun cenno; scrissi ad Elia d'Hermòs, pensando di poter per suo mezzo ricevere notizie precise; ma egli doveva essere in viaggio ancora, perchè non rispose. Una volta colsi nel giardino i fiori più belli, ne feci una cassetta io stesso e li mandai all'indirizzo del suo teatro; ma questa e l'altre cose rimasero senza risposta. Intanto un malessere sempre più frequente mi serpeggiava per l'ossa; un breve cammino od una piccola fatica bastavano ad esaurire le mie forze; gli occhi, sotto le palpebre, mi bruciavano; le vene dei polsi, delle tempie, mi battevano come nel rezzo della febbre; non potevo quasi toccar cibo, nè leggere, nè pensare seguitamente; avevo nelle orecchie un rumor sordo, simile a quella sonorità che ronza nelle conchiglie marine, ed esso mi si ripercoteva tormentoso nel cervello; mi sentivo assalire da spaventi subitanei, da traffitture per tutte le membra, e l'unghie agli orli mi si sfogliavano come le squame dei pesci. In quei giorni vendetti la tenuta di Monte San Biagio a Michele Rossengo, il quale si trattenne il prezzo dell'ipoteca ed in più mi diede una piccola somma di denaro. Così dell'antico dominio non rimaneva che la tenuta di Torre Guelfa, la rocca madre, onerata essa pure in parte, ma per una scadenza più lontana. Il ventesimo giorno dopo l'arrivo a Torre Guelfa, mentre desinavo, uno svenimento mi colse. La figlia di Lazzaro, impaurita, corse a chiamare il padre ed altri familiari. Mi portarono a letto e vi giacqui per cinquanta giorni, arso da una febbre tenace, invincibile, che ogni tanto sostava, per riprendere di lì a breve con maggiore accanimento. Il medico di Terracina pareva molto irresoluto nel far la sua diagnosi; parlava di sintomi delle febbri malariche o palustri, poi se ne mostrava dubitoso: fece il nome di malattie nervose complicate e strane, ma per quanto si cavillasse la mente, nulla poteva contro il mio male. Venne un professore da Roma e disse con maggior pompa le medesime cose incerte; mi trovò esaurito di spirito e di corpo, in uno stato lamentevole di eccitabilità, mi domandò anche se avessi avuto un dolore od una preoccupazione intensa... Disse che, appena combattuta la febbre, avrei dovuto da me stesso rimediare al resto, vincendo la mia svogliatezza, distraendomi, cacciando le idee nere. In quel tempo desiderai di morire; lo desiderai con la medesima voluttà profonda che avevo messa nell'amare la vita; provavo l'impressione di un annegamento continuo; la forza degli altri e delle cose avverse mi pareva crescere a dismisura, la mia, farsi piccola ed inane. Mi esecravo; non avevo alcuna fede, alcuna speranza in me. E su tutto navigava quel profumo di amor perduto, come, da una lontananza chimerica, il sogno di giovinezza che può sorridere ai morenti. Questa era la sola cosa che sapesse darmi ancora un fremito e potesse infondere nel mio tormento una soave malinconia. Intorno, la terra e il cielo intiepidivano di primavera; dalle campagne udivo cantare; i venti della sera mi portavano tutte le saturazioni della giornata feconda. Sognavo, come nell'estasi d'un sogno remoto, la mia donna e le parole che avevo udite da lei. Venne a curarmi Ludovico, e Fabio venne pure; mi assistette per circa un mese, fu amorevole, intuì meglio di chiunque altro l'origine del mio male. A lui, nel delirio della febbre, raccontavo le cose più pazze, pregandolo che andasse via, che mi lasciasse morir solo; e l'amico dolce come un fratello sapeva trovar le parole atte a rendermi un poco di serenità. Ma era mutato anch'egli: quel matrimonio d'Edoarda aveva interamente scomposto l'ordine della sua vita. Ora si faceva bisbetico, sarcastico, talora taciturno. O cuore incomprensibile dell'uomo, chi mai ti potrà conoscere? Lentamente guarii. Appena vinta la febbre, mi trassero fuori dalle coltri, mi sedettero all'aperto, tra i fiori, tra il verde. Cominciò gradatamente una giovinezza nuova, con le forze che rinvigorivano, con l'anima che si dilatava nella serenità circostante. Fabio era partito; avevo come soli compagni il medico di Terracina, Ludovico, Lazzaro, i suoi figli ed i villici della fattoria, gente onestamente rude che insegna l'amore della vita sana. Lunga e voluttuosa fu la convalescenza; tutte le cose più semplici, che la nostra sensibilità esperta non percepisce più, mi ferivano in quel rinascere; tutte le gioie tornavano, stillando come favi di miele nel sangue avido, ad una ad una. Colei che avevo amata, che amavo, era nell'intimo del mio cuore come un gioiello ben custodito, e provavo la voluttà di avere sofferto, io, che nella vita ero passato aridamente, senza vere passioni. Mi pareva d'essermi redento con questo amore doloroso. In tutte le immagini belle, che davan musica e luce alla mia vita nova, ella passava come una trasfigurazione, lasciando cadere intorno a sè fiori di rimembranza e di speranza, parole udite, sorrisi. Quando mi fui del tutto rimesso in forze, partii. Batteva l'estate piena, con accecanti sfarzi di sole e pleniluni chiari come albe, al cantar delle fontane. Andai direttamente a Parigi; volevo ritrovar Elena, parlarle od almeno vederla. Ma non v'era. Mi dissero al suo teatro ch'era partita circa un mese prima e non sapevano per dove. Sarebbe tornata l'autunno. La mia gioia si smorzò come per incanto, mi sentii più solo, quasi che la lontananza fra noi fosse immensamente cresciuta. Andai a riveder la nostra casa e riconobbi dalle finestre i segni d'altri abitatori. Di questo amore, ch'era pur stato così grande, non rimaneva più nessuna visibile traccia; le cose, la distanza, il tempo, scorrevano sovr'esso con una indifferenza crudele. Volli ritrovar Elia, ma era partito egli pure, cosicchè, per non lasciarmi vincere dallo sconforto, cercai la gente, il rumore, la musica, i ritrovi lieti, le donne gaie, le spiagge popolate. Fui ad Ostenda per oltre un mese, indi visitai Trouville, Boulogne sur Mer, Vichy, Aix; avevo un poco di denaro con me, giocavo temerariamente, vincevo. Verso il principio del Settembre scrissi a Parigi per sapere se fosse tornata; mi fu risposto che non avevano alcuna sua notizia. M'incontrai allora con alcuni amici che andavano a Montecarlo e questi mi decisero a seguirli. Che dolce autunno, giù per le colline inclinevoli, per i promontori selvosi, davanti a quel mare pigro, che oscilla, mentre le vele dei navigli erratici se ne vanno via, gonfie di vento, sfarzose di luce, leggere come petali di rose cadute sopra una fontana. Oh, averla meco, sotto la curva di quel cielo troppo azzurro, e camminar tra i palmizi onusti di grappoli quasi biondi, sotto i boschi d'ulivi che scoloriscono quando passa il vento, e guardar dai cancelli, sovra i muricciuoli dei poderi, nel

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Argomenti: monte san,    letto nuziale,    rumore frettoloso,    breve cammino,    ventesimo giorno

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