L'amore che torna di Guido da Verona pagina 74

Testo di pubblico dominio

prendesse, e tornatovi tosto, fissai per me una poltrona dietro l'altre due, nella fila consecutiva. Il giorno del primo concerto, quando entrai nella sala gremita, il grande Paderewsky già suonava; la sua testa d'angelo, placida e pura, sembrava sognasse le note che le sue mani andavano suscitando con un prodigio di maestria. Per non disturbare gli ascoltatori attesi l'intermezzo, appoggiandomi contro una colonna, quasi nascosto nella penombra, e fissando Edoarda, che istintivamente si volse. La settima sinfonia di Beethoven volava sopra l'uditorio, che la commozione teneva sospeso in una specie di estatica immobilità; qualcosa di magico e di possente sollevava gli spiriti, come fiaccole accese, in una sfera paradisiaca di ebbrietà. E in quel momento, su l'ala delle note volanti, nella religiosa paura che incutono le grandi rivelazioni, quell'amore che non si dice, che fu, e poi morì, e poi risorse, quell'amore che divien umile dopo esser stato violento e si appaga di nulla dopo aver tutto sprezzato, si comunicò fra noi come una cosa tangibile, divenne materia, bacio, carezze, parola e sospiro fra le anime nostre, che ritornavano entrambe da un lontano esilio, portandosi fiori di rimembranza e di poesia, primavere di sogno e di musica dimenticata. L'orchestra tacque; m'andai a sedere. La pelliccia di Edoarda, rovesciata su la spalliera della poltrona, toccava quasi le mie ginocchia, e, se mi fossi chinato in avanti, i suoi capelli m'avrebbero sfiorata la fronte. Intesi ciò che diceva, intesi la sua voce ancora, dopo tanti anni che più non la udivo. Il suo profumo mi veniva in faccia, qualcosa di lei fasciava i miei sensi nascostamente. Nel manicotto, semiappassiti, aveva i mughetti comperati la mattina in Piazza di Spagna. Mille volte mi venne la tentazione di toccarla, in un modo qualsiasi, fuggevolmente; ma non osai. Solo, durante l'intermezzo, un amico il quale sedeva due file più avanti, si volse, mi vide e prese a parlarmi. Allora, per rispondergli, mi chinai un poco su la poltrona di Edoarda e le fui così vicino che mi pareva quasi di toccarla. Certo la mia voce dovette darle quel medesimo senso che a me dette la sua, perchè la vidi trasalir leggermente. Quando ci levammo entrambi per uscire, ella mi guardò in viso, pallidissima, piena d'un'estatica paura. Ed io, rimasto solo, mi scossi, come per cacciar dalle vene il turbamento che vi serpeggiava, e risi, e pensai a quella che aveva inaridito il mio cuore. Mi trovai puerilmente perverso; non l'amavo, e, sopra tutto, non la volevo amare. Edoarda ritornò l'altre volte ai concerti, con la baronessa d'Andrassy, ma sedeva lontana e fu solo negli intermezzi che, levandomi, la potei vedere. Tutte le ambizioni della mia vita nuova convergevano in questa sola: possedere la donna che avrei dovuto sposare, contro la quale m'ero esasperato fin quasi all'odio. Un mio cuore fittizio mi faceva rivivere ad uno ad uno tutti gli episodi del legame spezzato, e, come s'ella non fosse più la stessa, mi tornavano alla mente i suoi gesti, i suoi baci, le inflessioni della sua voce, i sorrisi e le lacrime che avevano intessuta la storia del nostro lontano amore. Andavo per curiosità rileggendo alcune sue lettere, che m'erano rimaste per caso, e pur dicendomi che il tempo muta e travolge tutto, le somme felicità come i più acerbi dolori, tuttavia non potevo riconoscere nella sua nova bellezza di donna un poco altera, la timida fanciulla di un tempo, ch'era stata, nelle mie mani, quasi un trastullo fragile. Quel mio cuore fittizio la desiderava ora intensamente, la desiderava come un delicato vizio che potesse ancora infondere un po' di vita nella sua mortale aridità. A poco a poco scordai qualsiasi prudenza; mi recai nelle case ove speravo di vederla, ed in una visita presso la contessa di Casciano finalmente l'incontrai. V'era un numeroso crocchio di signore, qualche uomo solamente; fra questi l'ambasciatore Palazzo, il contino Rainieri e l'onorevole Albizzi-Cerda, amante allora della contessa di Casciano. Era costei una signora più che trentenne, ancora piacente, per quanto non fosse mai stata bella; suo marito, arditissimo esploratore, era morto di febbre gialla durante un viaggio. Aveva due figlie cordialmente brutte, ma educate a Londra, il che significa professare una libertà di costumi a tutta oltranza dietro un'apparenza impeccabilmente puritana. Quando entrai nella sala, gli occhi di tutti corsero involontariamente da Edoarda a me, poi sùbito le conversazioni si spensero in uno di que' bisbigli curiosi, che sono il commento subdolo del pubblico ai colpi di scena così frequenti nella commedia mondana. Alcune signore m'erano sconosciute; la padrona di casa mi presentò. Giunti che fummo davanti alla poltrona ove sedeva Edoarda, fingendo di conversare animatamente con una vecchia nobildonna ch'era mezzo sorda, la contessa di Casciano con la più soave ingenuità: — Tu, cara, — le disse — conosci, credo, il conte Guelfo... Edoarda, confusa, piegò il capo come per dire di sì. Le feci un inchino, rapido, e passai oltre. Ebbi la prudenza di non guardare nessuno, ma mi sentivo addosso gli occhi di tutti, molesti e beffardi. Senonchè la disinvoltura di Edoarda mi dette un grande stupore. Lungi dal cogliere sùbito un pretesto per andar via, o dal mostrarsi punto in imbarazzo, continuò a discorrere animatamente, come se nulla fosse accaduto, mettendo nelle sue parole un sale, una briosità, che non le conoscevo ancora. Di riflesso, mi trovai molto impacciato, e poichè la contessa di Casciano, in tutto squisita, ci teneva a farmi parlare, studiandosi di provocare il caso ch'io dovessi rispondere a Edoarda, o Edoarda a me, durai gran pena a non smentire quella fama che avevo di gaio e facile parlatore. Dopo una ventina di minuti venne il Capuano. La sua faccia strabiliata, quando ci vide, per poco non fece ridere anche me. Non appena gli fu possibile avvicinarsi a me, che gli sfuggivo, mi trasse in disparte per sibilarmi sottovoce: — Che novità son queste? Sei pazzo ora? Io feci con le labbra un atto d'indifferenza e risposi leggermente: — Perchè mai? Lo vidi poi che diceva qualcosa misteriosamente anche a Edoarda. Poco dopo, cogliendo l'occasione che la nobildonna mezzo sorda se n'andava, Edoarda pure si levò. Strinse la mano a tutte le signore, a noi uomini fece solamente un cenno del capo. Questa mia prodezza non ebbe che due conseguenze: la prima, che per una settimana ella non passò più per Piazza di Spagna, e l'altra fu una gran diatriba fattami dal Capuano. La sera stessa me lo vidi giungere in casa, fuori di sè. Ancor prima di togliersi il soprabito, e senza nemmeno darmi la buona sera, cominciò a sciogliere i freni del suo sdegno. — Insomma, insomma, io non capisco più in che mondo si vive! I gentiluomini, o quelli che dovrebbero esser tali, mancano ai riguardi più elementari dell'educazione! In verità!... — Puoi dire, puoi dire!... Tanto, sai che non m'offendo. — Ma vieni un po' qui, ragazzo mio! Spiégami: cosa ti sei fitto in capo? Forse di far la corte a Edoarda? — Eh, via!... tu scherzi! — Ti avverto che si comincia col dirlo in giro. E in fede mia tu fai proprio tutto quello che ci vuole per lasciarlo credere. Mi stavo infilando i pantaloni dell'abito da sera; egli camminava per la stanza, con il suo gestire da caratterista. — Sai, Fabio? Se tu avessi fatto il predicatore, chissà quanta gente sarebbe accorsa per udire i tuoi quaresimali! — Bah!... se vuoi scherzare è un altro conto. — Insomma: ti manda lei, per caso, a farmi questa ambasceria? — Ah, no! Ecco non devi credere questo! D'altronde non l'ho ancora veduta. — Ebbene, che colpa ne ho io, se, andando a visitare la contessa di Casciano, v'incontrai Edoarda? — Ma le smanie di società, di visite, di balli, di pranzi, ti son dunque venute tutte in un colpo? — M'annoio e cerco di svagarmi. Poi faccio il possibile per non perdere il mio posto nell'Olimpo. Sai... a questi chiari

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Argomenti: due file,    cuore fittizio,    medesimo senso,    delicato vizio,    numeroso crocchio

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