L'amore che torna di Guido da Verona pagina 50

Testo di pubblico dominio

destrezza, ma credo insieme che la tua coscienza vi si potrebbe adattare senza troppe difficoltà. Ad ogni modo non ho mai pensato di mettere queste armi nelle tue mani. — Cos'hai pensato allora? — feci sorpreso. — Ecco ti spiego. È certo più facile trovare mille uomini disonesti, che un sol uomo il quale abbia il coraggio della propria disonestà. Uso questa parola, perchè non mi soccorre alcun sinonimo più adatto ad esprimere la mia idea. Spesso mi ricordo di due compari, che insieme concertavano e compivano ogni sorta di bricconate, ma l'un d'essi era così ameno che dava in ismanie terribili quando l'altro, per aizzarlo a fatti compiuti, lo trattava di ladro e di furfante. Questo è l'uomo, amico mio... la bestia più illogica della creazione! — Grazie, feci ossequiosamente. — Grazie di tutto cuore, perchè mi avvedo che la tua gentile parabola, è un modo prolisso e garbato per darmi del furfante. — Oh, figurati!... Se mi hai compreso, basta. Sappi solo che queste armi non ti sarebbero date in mano, ed anzi non le dovresti nemmeno conoscere; ciò per prudenza e perchè la tua coscienza possa dormire in pace. — Insomma, veniamo agli esempi. Cosa dovrei fare io? — Questa volta un viaggio, se vuoi. Oh, comodo, breve, nei treni direttissimi... — Un viaggio? — Sì, guarda. Aperse un piccolo forziere e trasse da uno scrignetto una collana di perle orientali, che le sue mani esperte giravano e rigiravano adattandole al più propizio riflettersi della luce. — Vedi questi perle? — mi disse pacatamente. — Sono magnifiche, ti pare? La collana vale duecentocinquanta mila lire almeno. Guardale attentamente. Presi la collana, l'osservai. — Belle, molto belle: una rarità. — Credi che possano valere quel prezzo? — Senza dubbio; forse più. — Bene: siccome non mi servono, le vorrei vendere, — disse tranquillamente, con un sorriso arguto. — Le vorrei vendere, ma via da Parigi; a Londra per esempio; e vorrei che in luogo mio ci andassi tu, come se fossero tue. — Oh, grazie del pensiero gentile! Conosco!... grazie! conosco!... — Tu non conosci nulla, mio buon Guelfo! — egli esclamò con indulgenza. — No, nessuna molestia, di nessun genere, nè ora, nè mai. Diversamente sarebbero armi triviali, mentre le mie, ti ho detto, son caute, sicure precise... Solo bisognerà darmi retta ciecamente, avere fiducia nel mio senno. — Ma quale sicurezza puoi darmi rispetto alla... come direi?... legittimità di questa vendita? — Nessuna, evidentemente, fuorchè la certezza morale che, se vi fosse un pericolo, io stesso non lo affronterei, nè, credimi, lo farei affrontare a te. Prima di tutto perchè ti voglio bene, in secondo luogo perchè non mi conviene. Fìdati, Guelfo; io non ho mai fatto male a nessuno in vita mia. Tacevo, perplesso, confuso. — Vedi: la collana vale molto, è un gioiello da principessa. Un conte di Materdomini la può vendere meglio di chicchessia. Tu non devi portarmi che duecentoventi mila lire: la differenza è tua. Fece una pausa poi disse ancora: — La cosa ti va? — Guardai perplesso il mio tentatore, mentre sentivo in tutte le mie vene il sangue battere con una violenza mai sofferta. Le perle infatti erano meravigliose... — Insomma, vedremo, — dissi. Ed egli rispose tranquillamente: — Va bene. VII Nella settimana stessa partii per Londra, e seguendo le istruzioni di Elia vendetti sùbito la collana ricavandone il prezzo di duecentocinquantamila lire. Per spiegare ad Elena il mio viaggio avevo dovuto escogitare mille pretesti, raccontandole una parte sola della verità, ossia quella che si poteva dire. Ma non mi dilungherò a narrare queste piccole bassezze nè le innumerevoli sofferenze morali che dovetti conoscere durante quella estate calamitosa. Il mio delicato maestro aveva l'abilità somma di mai farmi compiere un'azione la qual fosse troppo temeraria per la mia pusillanime coscienza. Passammo l'estate nei luoghi frivoli ed ameni ove la signoria moderna riposa in bucolici ozî dalle sue cittadine fatiche. Ed Elena mi seguiva, taciturna sovente, quasi avesse nel suo vigile spirito un presagio del mio nuovo decadimento. Si può ingannare l'amico, il fratello, il compagno, si può ingannare perfino il complice, ma non la donna che al nostro fianco è partecipe della continua vita; e s'ella tace, se non rimprovera, se non consiglia, ma solamente guarda con occhi pieni di taciturno dolore, il suo silenzio è allora più terribile di una condanna duramente profferita. E nella mia vergogna v'era una riconoscenza indicibile per la soavità di quel perdono. Sul principiare dell'autunno ritornammo a Parigi, nella medesima casa, più tristemente. Fu per Elena un tempo di ansietà febbrile e di lavoro indefesso; per me invece un tempo d'angoscia e d'umiliazione. Mi trasformai; divenni sospettoso, irascibile, taciturno; anche il nostro amore ne sofferse; tutte le calamità pesarono su l'anima mia. Un giorno Elena mi disse: — Fra qualche mese diverrò attrice: è stato il sogno maggiore della mia vita, ed ora che sta per compiersi non mi dà più alcuna gioia. Che fatto strano! E rise d'un riso amarissimo, pieno di malinconia. — Non ami più il teatro? — le domandai, pur sapendo quanto il suo pensiero fosse diverso. Ella rovesciò il capo all'indietro, con un moto rapido, come per scacciarne una torma di pensieri tristi, e rispose, continuando a sorridere: — Mi dicono che sarò una grande attrice, mi ripetono che ho «l'anima lirica...» È la frase della mia maestra. In poco tempo ho percorso il cammino di molti anni. Il direttore dell'Athénée m'ha intesa ieri e sùbito m'ha proposto di farmi debuttare nel suo teatro. Penso che accetterò. — Fece una pausa e mi volse nel viso gli occhi profondi, troppo intensamente lucidi; soggiunse: — Chissà se il giorno della mia prima recita mi verrai a sentire? — Oh, Elena, che bizzarrie dici! Come puoi dubitarne? Ella scosse il capo ripetutamente, con ostinatezza. — Forse non ci sarai più... ma non importa! Sono sempre stata sola, ritornerò sola. — Ma Elena!... — Cosa vuoi rispondermi? cosa? È inutile! Ho sempre taciuto, ma vedo chiaramente la fine. Ora studio una parte in cui v'è questa frase: «Il nostro amore cammina sopra un filo di spada... ma la spada è breve.» Questa frase è fatta per noi. — Elena, — dissi, — le tue parole mi sorprendono, quantunque non sia la prima volta che mi fai queste nere predizioni. Non ti ho mai voluto bene come ora. Ed anch'io, Germano, anch'io... — profferì con le lagrime agli occhi. — Ma tutto questo è inutile: c'è per noi un destino. La strinsi nelle mie braccia e volli ancora parlare; ma ella con la bocca mi suggellò fortemente la bocca. Non so perchè mi sentii nascere nell'anima una infinita, irreparabile tristezza, ed in quell'ora, per la prima volta, dopo essermi trastullato con tutte le cose che nel cuore umano hanno il valore d'un sentimento, compresi che l'amore poteva essere una piaga insanabile, un martirio di tutte le ore. A lungo le nostre bocche rimasero congiunte, in silenzio; molte cose volevo dirle, ma una specie di paura vaga le seppelliva dentro il mio cuore; molte cose anch'ella mi taceva, trattenuta forse dalla medesima paura. In quel tempo le lettere di Fabio Capuano si erano fatte più frequenti; la prima che ricevetti, dopo il mio ritorno a Parigi, fu questa: Caro Germano, Ti ho scritto a Vichy ed a Pau, ma poichè non ebbi risposta, penso che le mie lettere abbiano sbagliato itinerario. Poco male, non ti raccontavo nulla che valesse la pena d'esser letto. Mi rallegro tuttavia nel vedere che le molte angustie delle quali ti lagni non ti fanno perdere in ogni caso le abitudine gaie del buon tempo andato. Io villeggio a Rimini, e villeggio per modo di dire, perchè a Rimini, come ti ricorderai, c'è il mare; un mare, anzi, di questi giorni splendidamente azzurro. Io, che di solito non faccio nulla, in questo momento mi riposo; cioè godo con maggior

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