L'amore che torna di Guido da Verona pagina 73

Testo di pubblico dominio

l'invitato necessario d'ogni pranzo, il compagno su gli «stages», nelle villeggiature, al mare, in montagna. Rassegnati e bisbetici, fanno da supplente o da superfluo, e son gli uomini a cui volentieri i mariti confidan le lor mogli, perchè possiedono tutte le virtù maritali, mentre non si ritengon pericolosi; cicisbei di gran corte, che il troppo donneare o il troppo amoreggiare ha finalmente ridotti a non destar paura. Fabio, senz'essere tra costoro, stava per assumerne l'abito e gli attributi. Quell'amore per Edoarda, ch'egli aveva nutrito nell'anima silenziosamente, ora gli si commutava in una di quelle caparbie sentimentalità, che spesso divampano all'avvicinarsi della vecchiaia. Passioni che conservano dell'amore tutto il furor triste, l'amara gelosia, con un senso penoso di rinunzia e senza quella bellissima temerità che distingue l'amore, cioè la pretesa del possesso. Era il secondo abbandono che faceva di lei, forse il più doloroso. Dopo averla adorata senza mai dirglielo, aveva saputo compiere la più alta rinunzia per vederla felice, per darla a me; invece se l'era presa Piero De Luca, vagheggino facile di morale, di lingua e di spada, ex ufficiale di cavalleria, notissimo nelle cacce, negli ippodromi, giuocatore sregolato, uomo avventuroso, destro, pieno di coraggio e di fede in sè stesso. Dicevano che la generosità d'un amante gli avesse più volte salvata l'uniforme, quell'uniforme attillata ch'egli portava con tanta spavalderia. Ora, da qualche anno, aveva lasciato l'esercito; non lo si vedeva più pavoneggiarsi di quella sua lunga sciabola rumorosa, o danzare a tutti i balli con eleganza compiuta; ma si dava interamente ai cavalli, ora sopra tutto che il denaro dei Laurenzano gli permetteva di nutrire una scuderia da corse, oltre una decina di cavalli per concorsi ippici e per le cacce nella campagna. Il Capuano lo aveva sempre avversato, prima e dopo il matrimonio, nè si tratteneva dal farlo comprendere a Edoarda. Senonchè il De Luca era un marito come ve ne sono molti, fra quelli che han sposata una dote, e dei quali si crede, per questo solo, che debban esser pessima gente. Il De Luca, — e Fabio doveva pur convenirne, — era gaio in famiglia, non molesto, cortese; accompagnava sua moglie volentieri, le usava un'infinità di premure, la colmava di regali, questo, beninteso, con il denaro di lei. Ancora non gli si conoscevano amanti; con le antiche — le quali eran molte — si mostrava d'una correttezza irreprensibile: non era inoltre geloso, non scontroso, di belle maniere e liberale: «pareva che in quel denaro egli ci avesse guazzato fin dall'infanzia»; — e questa era una frase del Capuano. Aveva in addietro appartenuto al nostro Circolo, poi se n'era dimesso. Ora lo avevano ripresentato ed accolto a pieni voti. Uno dei proponenti, s'intende, fu il Capuano. Ma il De Luca non veniva che ad intervalli; dopo il matrimonio aveva lasciato il gioco e passava la vita fra le scuderie, gli ippodromi, gli allevatori e gli allenatori di cavalli. Mi ero domandato sovente se Edoarda lo amasse. Fabio pretendeva di no. S'egli amasse Edoarda? Forse. Ora le carrozze dei Laurenzano erano stemmate; sul portone del palazzo era uscito un grande scudo marmoreo con le armi dei De Luca, ch'eran tre stelle sopra un mare, con un torchio ed una chiave. «Nostra cum vi». La vecchia zia era morta da tempo; ne avevano già smesso il lutto. Un giorno, che si parlava di tutte queste cose, Fabio mi domandò improvvisamente: — Infine, sei dunque pentito della tua pazzia? — Pentito?... Ma neanche per sogno! — risposi bruscamente, alzando le spalle. Poi, siccome volevo sapere molte cose, presi a domandargli con somma naturalezza: — Edoarda non ti ha mai parlato di me? — Sì, qualche volta, in principio; ma ora, da che sei tornato, evita manifestamente questo discorso. — Ah! — Però conosce tutte le tue prodezze. — Quali? — Oh Dio... tutte! — E naturalmente gliele avrai raccontate tu. — Un po' io, un po' gli altri. Perchè? ti spiace? — Figùrati!... Mi è del tutto indifferente. Volevo soltanto sapere cosa dice di me. Forse mi compiange? — No; anzi non esprime alcun giudizio. Solo, una volta, m'ha detto di averti veduto, credo in teatro, e di aver notato che avevi l'aria un po' mutata... da quel tempo. — Mutata? E come? — Che so io? lo sguardo più duro, l'espressione d'un uomo che sia molto vissuto in poco tempo, l'aspetto un po' patito... Non ha detto di più. — E non hanno bimbi? — Finora no. — Come mai? — E cosa vuoi che ne sappia io! — esclamò egli, con il suo solito malumore sorridente. — Senti: e se per caso l'incontrassi una volta, in società o in altro luogo dove fosse indispensabile parlarci? Gli feci di proposito questa domanda, sapendo ch'egli l'avrebbe ripetuta. — Mah?... — rispose Fabio, — non saprei. Il marito come si dimostra con te? — Cortesissimo. — Vi parlate? — Al Circolo, qualche volta; poche parole. — Bah! Potresti al caso rivolgerle accademicamente un saluto: buon giorno, buona sera... Questo non conta. — E mi risponderà? — Per forza. — Senti: è una domanda stupida, oziosa la mia... Ma credi che sia tutto passato in lei? — Ah... non so. — E soggiunse con la sua voce burbera: — Le donne, sai, chi le indovina è bravo! Sapevo che tutte le mattine ella passava per Piazza di Spagna, e vi passai; sapevo che la domenica andava alla Trinità dei Monti con altre signore, e la domenica passeggiai verso la Trinità dei Monti. Solevo portare nello sparato della camicia una goccia di rubino ch'era il castone d'un antico anello; Edoarda me lo aveva regalato, non so più in quale ricorrenza. Ogni sera, quando supponevo di poterla incontrare in un teatro, portavo quel rubino. M'era pur rimasto, nella casa di Roma, un gran mazzo di cravatte ch'ella mi aveva comperate, perchè a quel tempo amava occuparsi d'ogni cosa mia. Ed allora, ogni mattina, per andare in Piazza di Spagna, ne misi una: conoscevo la sua memoria tenace, forse le avrebbe riconosciute. Facevo queste cose puerili e mi pareva di non amarla; per lei non provavo che un senso di gelosa inimicizia, una curiosità piena d'irritazione. La cercavo tuttavia, con il pensiero assiduo, mentre il desiderio di rivederla diveniva per me un bisogno assillante. Pensavo: «Ella sa che ogni mattina l'attendo in Piazza di Spagna. Perchè ogni mattina la rivedo? Perchè non sceglie un diverso cammino?» E la lentezza di questa insidia mi tentava. Quando la primavera fu tutta sbocciata, le fioraie scesero su la piazza con canestre riboccanti. Allora, ogni giorno, ella si fermò a comperare qualche mazzo. Talora, essendomi coricato all'alba, duravo gran fatica nel trarmi dalle coltri; pur mi levavo, poichè ogni altra cosa mi sarebbe sembrata priva di uno scopo, il giorno che tra quei fiori non l'avessi incontrata. Veniva pure i giorni di pioggia, e le fioraie nascoste sotto grandi ombrelli la salutavano al suo passare. Pensavo: «Come avvicinarla? come dirle o scriverle una parola?» E mille infantilità, mille vecchie astuzie da innamorati mi si affacciavano alla mente; ma sùbito le respingevo, non volendo sciupare in un modo così comune la mia tortura delicata. Tutto di lei mi piaceva, e sommamente le cose che un tempo m'erano dispiaciute; il mio desiderio s'inaspriva d'una torbida sensualità. Una mattina, insensatamente, mentr'ella si era fermata per comprar fiori, m'avvicinai. Ma quando le fui presso, e mi vide, si fece bianca più dei mughetti che teneva in mano, e lasciandoli cadere s'allontanò rapida. Non la rividi per tre giorni; poi tornò. Giunse Paderewsky a Roma per dare tre concerti, e sapevo da Fabio ch'ella vi sarebbe andata. Anzi egli aveva l'incarico di fissare i posti, ch'erano assai contesi; uno per lei, l'altro per la viscontessa d'Andrassy, moglie d'un segretario dell'Ambasciata Belga. Fabio mi disse che il barone De Luca non amava la musica da camera. Accompagnai Fabio per vedere quali posti

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