L'amore che torna di Guido da Verona pagina 3

Testo di pubblico dominio

passando una crisi. — Una crisi? — Precisamente. Siete un ubbriaco morale, avete una manìa d'amore. Sento che i vostri nervi soffrono. — E come lo sapete voi? Lenta e blanda si appoggiava contro la mia spalla; v'era nella sua voce qualcosa di torbido, che improvvisamente mi accendeva nella memoria il pensiero delle carezze d'una volta. — Come lo sapete voi? — feci di nuovo, poichè aveva taciuto. Mi fissò gli occhi negli occhi, con un riso esperto, e disse: — Non è così, forse? Non è vero che vi esaspera? Io non so come stiano le cose, ma penso che l'amore platonico non sia fatto per gli uomini del vostro temperamento! E continuò a ridere, di quel riso che m'irritava come una provocazione. La guardai. Un senso d'angoscia mi sopraffece, in cui v'era pure un senso di ostilità contro quella donna, contro quel profumo, contro tutte le cose che faceva o diceva per molestare la mia nervosità. Ma d'un tratto, come sotto il chiarore d'una luce ambigua, mi parve rivedere in lei l'amante di una volta, la donna gloriosa e gioiosa che aveva dispensato il vizio come il suo pòlline un fiore. E mi piacque, perchè aveva la bocca tinta di rosso, il profumo estremamente forte, la gola un poco sfiorita. Certo se ne avvide: una sua mano furtiva mi cercò. — Germano, — disse con la voce velata, — se io fossi ancora la vostra amica non vi renderei così triste. Di nuovo la guardai. V'erano ancora nel suo volto i vestigi di una grande bellezza, gli occhi le splendevano d'un chiarore di gioventù. — Se fossi ancora la vostra amica... — pronunziò più lentamente, con un brivido. Ora, davanti a noi, si aprivano i Prati del Castello vasti e bui della solitudine della sera imminente. Fumavano su dalle torri della prigione antica lenti fasci di nebbie crepuscolari, verso il cielo, che da ogni nuvola, gradatamente abbandonava il giorno. Vinto da una specie di perversità mi chinai su quella bocca troppo vicina, che mi alitava su la faccia il suo torbido e caldo respiro. — Voi, Guelfo, — mi disse, rannicchiandosi nella pelliccia — voi siete fra que' rari uomini che una donna non dimentica mai. Se non foste innamorato, Guelfo... E si cacciò le mani freddolose nel tepore dell'ampio manicotto. — Se non foste innamorato, Guelfo... — Ma lo sono, lo sono terribilmente... di un pensiero che mi avete fatto nascere voi! Un riso aperto le gonfiò la gola, e, quasi per dissimularlo, si nascose la faccia nel manicotto, fra un mazzo di viole. Poi, subitamente, cambiando voce, con sottile ironia: — Come sta, — mi disse — quella nostra povera Edoarda? Era una domanda sùbdola e ne fui molto infastidito. — Cosa volete dire, marchesa? — Nulla: domando sue notizie. È gran tempo che non la rivedo. Ecco una ragazza che molte hanno ragione d'invidiare. — Vi ringrazio della buona frecciata, marchesa! Come al solito siete crudele. — Non è crudeltà, caro Guelfo. Certo non posso impedirmi d'ammirare il vostro imperturbabile coraggio. Alla vigilia del matrimonio v'ingolfate in una grande passione, (oh quanto grande!) non solo, ma per colmare un giorno di nevrastenia tentate anche un ritorno verso gli antichi amori. Siete un uomo fortunato, voi!... Potete fare questo ed altro. — Amica mia, sapete pure che si vive una volta sola. — Questo sì. — E dunque? — Dunque... avete ragione! — Ci vedremo allora? — Non so... — Come non sapete? — Bisogna riflettere... — Riflettere? Via!... sarebbe la prima volta! E ne ridemmo entrambi, con le labbra congiunte. III Io vi pongo una domanda semplice: «Ad una donna che una volta si è amata, o si è creduto di amare, ad una creatura fragile come l'ambra e pallida come la cera, è mai possibile tenere un discorso così terribilmente logico e crudele? È mai possibile dire: «Ascoltami Edoarda: il mio grande amore non è stato che una favola, un'illusione... ora è finito; non c'è rimedio nè speranza, mai più.» Dirle: «Tu sai: l'amore che finisce è come una lampada che si vada spegnendo in una sala piena d'argenterie. Quand'essa era in vita, tutte le cose intorno brillavano, abbagliavano, erano altrettante luci; man mano ch'essa muore, tutto a poco a poco si attenua, si vela, s'adombra... Così fu per me. Qualcosa cessò di vivere nell'anima mia più profonda, e lentamente, senza volerlo, divenni per te un nemico. Le cose tue che mi erano sommamente piaciute suscitarono in me quasi uno scherno; alcune lentezze della tua voce mi annoiarono, il vezzeggiativo con il quale usavi chiamare il mio nome, anch'esso mi dispiacque, la tua sensibilità eccessiva m'irritò, le tue tenerezze soverchie mi vennero a noia. Un giorno, me ne ricordo assai bene, tu cantarellavi... Certo non hai avuta mai un'attitudine vera per il canto, ma in altri tempi amavo immensamente udirti accennare qualche bella canzone sottovoce. Quel giorno — si era in campagna — dovetti uscirmene in fondo al giardino per non pregarti di tacere. Tu, come donna, in quest'ora sopra tutte difficile, quando l'amore pericola, non hai saputo valerti della tua femminilità. Mi hai fatto conoscere l'amarezza delle tue lacrime, il tedio de' tuoi rimpianti. Ora, sappilo, Edoarda: in questi stramonti dell'amore v'è qualcosa d'ineluttabile, perchè nessuna forza umana può rinfocolare l'agonia di un sentimento. Ho cercato d'ingannare me stesso e d'ingannare te; ma oggi tutto mi riesce vano. È finito, intendi? finito! E questa parola è irremediabile come tutte le cose che in sè racchiudono il nulla...» Ad una creatura fragile come l'ambra e pallida come la cera, che vi avesse regalato a piene mani tutto il fiore della sua giovinezza, è possibile confessare una verità più semplice ancora, dirle: «Io non ti amo più, perchè mi possiede, m'inebbria e m'incanta un altro sogno d'amore?...» No, certo. E l'angoscia continuava. Ogni venerdì mi era necessario trovare un pretesto plausibile per non accompagnar a teatro Edoarda e sua zia, nel solito palco, alla solita ora, con una tediosa monotonia. Quel pretesto contava tra le maggiori fatiche della mia settimana. Il venerdì, beninteso, andavo a pranzo da lei: dovevo dare un mio consiglio su l'abito, sul cappello; dire qualche scempiaggine perchè la vecchia zia non s'addormentasse dopo la chicchera di caffè, — indi subirmi a teatro uno spettacolo eccezionalmente noioso. Dopo il teatro la zia soffriva d'una specie di languore allo stomaco: al ritorno, l'aspettava nella sala da pranzo una piccola cena fredda. Questo languore in fondo non era che un'ottima invenzione di Edoarda per procurarci una mezz'ora d'intimità nel salottino roseo, dove i paralumi attenuavano soavemente la luce. Colà mi conveniva essere un'istrione perfetto, consumare tutte le grandi e piccole finzioni che servono ad intessere la commedia dell'amore. Molto spesso quello spuntino della zia durava quanto un vero e proprio banchetto, perchè la povera donna, dopo averci chiamati una e due volte sommessamente, cadeva in quello stato di sonnolenza morboso ch'io solevo chiamare «il letargo della bisarcavola». Oh, quante infrenabili tossi! quanti urti — per inavvertenza — nelle tavole, cercando che si destasse! E dietro queste piccole astuzie, nel mio cuore angosciato quanta immensa pietà! Certo v'erano in me due uomini ben distinti, che senza posa cercavano di sopraffarsi; due uomini di natura inconciliabile, negazione perpetua l'uno dell'altro, ed io stesso non riuscivo a comprendere per quale occulto legame potessero convivere insieme. C'era in me un uomo piuttosto dedito alle forme, alle astrazioni delle cose, guidato da una morale rigida e da una chiara intelligenza, capace di sentimenti squisiti e spesso d'ingenuità puerili; raffinato ma non corrotto e facile all'ardore come allo sconforto; un uomo infine che amava e rispettava la vita. Ma insieme un'altro v'era, che aveva per maggiore intento quello di esaurire tutte le sensazioni, di sviscerare le cose, per ricercarvi la vanità recondita, con una

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Argomenti: grande amore,    bocca troppo,    creatura fragile,    pretesto plausibile,    sonnolenza morboso

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