L'amore che torna di Guido da Verona pagina 6

Testo di pubblico dominio

gioia, tranne una grande stupefazione. Era la prima volta che imparavo a conoscere un'anima di signorina. Finchè, un giorno, in un albergo di campagna... E le confessai la mia colpa, nel modo più naturale, come se parlassi d'un altro e raccontassi una storia udita per caso. Ella mi ascoltava senza perdere una sillaba, ritta contro il camino, con le due mani protese all'indietro verso il tepore del fuoco. Un contorno di luce rendeva più ferma l'immobilità de' suoi lineamenti. — E v'era, — continuai, — v'era, ve lo confesso, anche un'altra ragione. Il mio denaro sfumava. Di giorno in giorno vedevo la rovina giungermi sopra a grandi passi. Oltre a ciò, la noia, la stanchezza di vivere a quel modo, il bisogno di rinnovarmi un poco... infine la promessa! Mi era quasi appena caduta dalle labbra, che già mi pentivo di averla data. Un soffio disperse tutto, l'amore, la riconoscenza, i calcoli... e non rimase che la paura di spezzare quell'anima fragile nel confessarle che tutto era stato un'illusione, impossibile a continuarsi, necessariamente finita... E soggiunsi: — Fra qualche mese, al termine d'un suo lutto recente, l'avrei dovuta sposare. Ella mi ascoltava ora con la testa un poco abbandonata all'indietro, le palpebre socchiuse, come sentendosi rapire da un pensiero dilettoso e crudele. La sua gola riversa biancheggiava, palpitando per il respiro troppo frequente, ed aveva in sè una similitudine di colomba, una similitudine di cosa immacolata. Ed ancora narrai le terribili angosce sofferte per tenere in vita questo amore che finiva, le lotte affrontate, le finzioni, le piccole menzogne necessarie, le volte ch'ero andato per dirle: «Sai Edoarda...» — per dirle tutto, — e me n'ero tornato indietro, più vile, più lamentevolmente spossato, col mio secreto nel cuore. Infine le domandai: — Ora, ditemi: è più onesto sposare una donna in queste condizioni od avere il grave coraggio che può essere necessario per non morire in due? Quella immobilità di statua fu scossa come da un brivido; vidi che una lotta veemente si dibatteva in lei; pensò a lungo, in silenzio, poi repentinamente levò la faccia. Gli occhi le splendevano di una luce oscura, nel mezzo della fronte aveva una piccola ruga e le vagava su la bocca un sorriso delicatamente crudele. Le sue mani si posarono aperte su le mie spalle, strinsero, strinsero forte... — Non so! non so nulla! non so nulla! — rispose con precipitazione. Poi d'un tratto, avvinghiandomisi al collo: — Taci! Non parlare più!... Le sue labbra, con irosa gioia, si lasciarono cogliere su la bocca il primo nostro bacio d'amore. Sentii che la stanza, i fiori, la luce, l'anima, tutto spariva in un vuoto profondo come l'oblio. VI La mattina seguente, pochi minuti prima del mezzogiorno, camminavo con un passo alacre verso la casa di Edoarda Laurenzano. Vanamente cercavo di costringere il mio pensiero alle opportune meditazioni di quell'ora forse terribile che per me s'apparecchiava. Tutto nel mio spirito era giocondità, sorriso, luce. Godevo il piacere insaziabile di respirare l'aria, di bagnarmi nel sole, di camminare con rapidità nell'ingombro dei marciapiedi; provavo la gioia di veder correre i cavalli, e gli uomini urtarsi, confondersi, elevando la voce, manifestando in mille modi continui la vitalità dei loro muscoli e dei loro pensieri. Eppure una gran casa taciturna mi attendeva: in quella casa una fragile apparizione di fanciulla, con gli occhi pieni di lacrime latenti, buona fino al martirio, pallida fino allo squallore. Mi attendeva lo sforzo di comprimere dentro il cuore tutta l'esuberanza di questa immensa gioia, per chinarmi a raccogliere un dolore, a simulare una pietà, e, menzogna sopra menzogna, forse a concedere una speranza. Come mi avrebbe accolto Edoarda, dopo la notizia del duello ed i maligni discorsi delle premurose amiche? Senza dubbio le voci su la mia recente avventura con Elena dovevano essere giunte fino a lei. D'altronde, come le avrei spiegata la mia trascuraggine di quegli ultimi tempi? Un giorno, mentre passeggiavo con Elena sul Corso, la sua carrozza era passata improvvisamente. Non potendomi nascondere, m'ero vôlto con prontezza verso una vetrina, e durante il fugace riflettersi della portiera nel cristallo non avevo potuto discernere se colei che stava nella carrozza mi avesse o no veduto. Infine mi sarei dunque deciso ad una confessione aperta, od avrei di nuovo prolungata per viltà quella orribile finzione? Tutte queste domande volgevo confusamente nel mio spirito, e rimanevano senz'alcuna risposta. Nel varcare la soglia del palazzo Laurenzano, provai subitamente una stretta al cuore. Tutto là dentro, le persone e le cose, mi erano familiari, avevano al mio giungere un sorriso di cordiale accoglienza. Vedendomi entrare, il vecchio portiere si affacciò alla vetrata per dirmi ambiguamente: — Oh, signor conte! Non la si vedeva da molti giorni. E' stato malato forse? — Un po' indisposto; nulla, nulla, — risposi con brevità. E la sua moglie ciarliera gli andava borbottando qualcosa dietro la schiena, tirandolo per la falda della livrea. Venne il cocchiere in quel punto, mentre stavo attraversando la corte, per dirmi che uno dei cavalli s'era azzoppato e la signorina gli aveva detto di mostrarlo a me... quando venissi. — Va bene, — risposi. — Scenderò dopo la colazione. Quei cavalli erano stati scelti e contrattati da me; in quella casa tutti oramai mi consideravano come il padrone. Salito che fui nell'anticamera, il domestico tornò da capo con le sue rispettose maraviglie. Sono costoro per consueto custodi assai gelosi dell'onor familiare. Edoarda mi venne incontro per il corridoio, senza far strepito sul tappeto, appoggiandosi alla parete, nell'ombra. — Credevo che non saresti venuto mai più.... Furtivamente, nel corridoio, non sapendo come risponderle, per fare quello che facevo sempre, volli darle un bacio. Ma ella si ritrasse con un moto repentino e disse in fretta: — Vieni, la zia ci attende. Infatti, nel solito angolo della sala, sprofondata in una immensa poltrona, la zia di Edoarda lavorava come sempre alle sue cuffie di lana. Whisky, il piccolo terrier dal musetto bianco e nero, le sonnecchiava davanti, sopra un cuscino. Quando mi vide, balzò diritto e mi corse incontro saltellando, abbaiando forte. — Whisky, piccolo Whisky!... Come va? come va? — feci allegramente, per nascondere la mia confusione. Ma Whisky si arrampicava su le mie gambe, mi grattava le scarpe, urlava tanto, che dovetti prenderlo in braccio e carezzarlo affinchè si quietasse. La zia di Edoarda, una vecchia signora corpulenta e piena d'infermità, mi accolse in un modo appena urbano. Cosa dissi non saprei; una confusione sciocca di parole e di fatti: quel mio malessere continuo, la febbre, l'arrivo di un amico da Palermo, l'incidente spiacevole con l'Albanese, lo scontro «e poi, di nuovo, ieri, tutto il giorno, tutta la notte, l'emicrania...» Edoarda, seduta, immobile, pareva esaminasse ogni mio gesto, ingoiasse con amarezza ogni mia parola. Poich'ero assai confuso, Whisky sopra tutto m'interessava, con le sue comiche impertinenze, con le sue capriole sui cuscini, vispo come un furetto. — E cosa faceva in questi giorni il piccolo Whisky? — io dicevo, schioccando le dita per provocare la sua vivacità. Di sfuggita, nel frattempo, consideravo Edoarda. Mai come in quel giorno ella mi parve stremata. Il lungo pianto le aveva devastata la faccia. — Mi ha detto il cocchiere, — profferii timidamente, per interrompere il gelido silenzio — che uno dei cavalli zoppica. Dopo colazione bisognerà che lo andiamo a vedere. — Sono già due giorni, — ella disse, guardando a terra. — Non fu chiamato il veterinario? — No: credevo che sareste venuto. Ancora un lungo silenzio. — Non avete altri duelli in vista? — fece dottoralmente la zia. — Nessuno ch'io sappia, — risposi, volendo riderne. — Meno male: noi lo abbiamo saputo dagli Ardizzò-Basile e

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Argomenti: due mani,    recente avventura,    moto repentino,    pensiero dilettoso,    respiro troppo

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