L'amore che torna di Guido da Verona pagina 37

Testo di pubblico dominio

saremo un giorno, spero, ed intanto seguite il mio consiglio: prendete tutto quello che potete, moralmente e materialmente; non rinunziate a nulla di quanto potrete raccogliere, perchè all'ora del bisogno si ritrovano solamente le beffe. La vita dell'uomo è una cambiale che scade ogni giorno: o la si esige nelle ventiquattr'ore, o il domani è carta straccia. — Però, visto che ragioniamo di cose gravi, — osservai — qualche volta può esservi di mezzo anche la coscienza. — Ebbene, la si costringe ad avere buon senso. Nell'uomo forte la coscienza non è altro che l'esecutrice della sua volontà. — Oh, mio caro, so che parlate per burla! — No, davvero! E voi stesso, come tutti, almeno cento volte nella nostra vita sarete pur venuto a qualche transazione con la vostra coscienza, senza darvene forse un conto esatto; mentre io, fin dal principio, ebbi il coraggio di rassegnarmi a queste necessità inevitabili. — Voi parlate di transazioni... Oh, Dio, certo... E chi non ha qualche rimprovero a farsi? — Io, mio buon amico! io stesso. E per la ragione semplicissima che sono sempre stato il giudice sereno di me stesso. La mia coscienza è di una mansuetudine senza pari, poichè ha dovuto soggiacere anch'essa ad una legge ben più rigida e ben più forte, che si chiama volontà. Poi, sentite: le vie di mezzo sono sempre le peggiori; al mondo non vi sono che due maniere di vivere: onestamente o disonestamente. Ma in entrambi i casi bisogna seguire la propria strada con fiducia e con coraggio, tanto più che fra le due v'è una sola differenza: la prima è noiosa, l'altra pericolosa. L'essenziale è di professare un principio, poichè l'uomo indeciso fra ciò che si chiama, se volete, la virtù, e, se volete, la frode, corre dirittamente incontro ai danni dell'una e dell'altra, senz'avere di nessuna i vantaggi. Io, per esempio, non sono in dubbio mai, perchè ho dato alla mia coscienza la forza di accettarmi e di approvarmi qual sono. Egli faceva queste ambigue professioni di fede in un modo così naturale, ch'era veramente impossibile non ammirarlo e quasi quasi non dargli ragione. — Trovo — seguitò, — che il più ragionevole fra i diritti dell'uomo è quello di sfruttare l'imbecillità de' suoi simili, poichè, nella lotta per la vita, o si è pecore o si è leoni. Sentitemi bene: il prete, il ladro, il questore, l'usuraio, il mezzano, lo Stato e la classe innumerevole degli avventurieri, ecco, in tutte l'epoche, presso tutti i popoli, i leoni. E il rimanente, pecore, pecore, pecore!... carne da macello, bestie da soma, per sempre! Si era fermato al bivio di due strade, sotto la luce obliqua d'un lampione; la sua bocca schernevole sorrideva di un sorriso incomprensibile, i suoi occhi si fissavan ne' miei con uno sguardo penetrante. Non potevo ben comprendere se avesse parlato seriamente o per burla; sopra tutto non potevo comprendere lo scopo di simili discorsi, fatti quasi ad un estraneo, senza un fine palese. — Dunque non approvate la mia logica? — soggiunse ridendo. — In genere — dissi, — i filosofi vanno accettati senza discuterli, perchè a modo loro, han tutti ragione. — Ma voi di che scuola siete? — Oh, io non mi sono mai data la pena di avere una scuola! Sono vissuto e vivo secondo il mio piacere. — Un empirico dunque? — Ecco, se così vi piace. Su queste parole ci lasciammo, per quella sera, con la promessa di rivederci presto. Ed infatti, un poco per noia della mia solitudine, un poco per curiosità, cominciai con praticarlo assiduamente. Ormai non cercavo nemmeno più di spiegarmi la ragione per la quale il d'Hermòs, che aveva un sì gran numero di conoscenze, dedicasse a me gran parte di quel tempo che pur doveva essergli prezioso, nè potevo certo supporre che una semplice simpatia fosse la causa di una tale assiduità. Nel medesimo tempo mi andavo accorgendo ch'egli sapeva di me e della mia vita assai più cose ch'io non desiderassi. Un giorno s'invitò a pranzo da noi, prima che avessi nemmeno pensato a farlo; dubitai allora di vederlo corteggiar Elena, offrendomi con questo la spiegazione logica delle sue troppe cortesie; ma invece non fu così. Davanti ad Elena era tutt'altro uomo: garbato, galante, pieno di spirito e di brio. Nondimeno Elena provò subito contro il d'Hermòs un'antipatia così piena di sospetto che mi parve persino ingiusta. — Quell'uomo — ella disse, — ha qualcosa in sè che m'ispira diffidenza e timore. Non mi stupirei se un giorno o l'altro egli riuscisse a divenire il tuo cattivo genio. — Mi credi tanto fanciullo ch'io possa temere le cattive amicizie? — Non si sa mai, Germano. Costoro son talvolta uomini pericolosi, molto pericolosi!... Stanne in guardia. — E che ne sai tu? — Io?... nulla. Una semplice intuizione. E l'eterna sfinge impassibile scendeva su la sua faccia così bella, ov'erano i segni di tutte le passioni, di tutte le insensibilità. Inutile ormai voler conoscere il fondo di quell'anima: ella sfuggiva, sfuggiva continuamente, come un possesso inafferrabile, ed il mio tormento cresceva. Nell'acerbo amore che avevo per lei mi pareva talora di sentir insorgere una sensazione simile all'odio; l'odio di non potermene impadronire come di un bene mio, di non poterla del tutto conoscere nè dominare, di vedere perpetuamente fra me e lei lo spettro dell'ignoto, rigido e fermo, che rendeva inutile ogni sforzo per guardare al di là. Ero certo ormai ch'ella mi aveva mentito dalla prima all'ultima parola nel raccontarmi il suo passato; la storia che mi aveva tessuta non poteva essere la sua, non le calzava, era in molte cose dissimile da lei. Mille indizi non traducibili mi davano questa certezza. Tuttavia non volevo tormentarla con nuove domande, parendomi che la cosa fosse puerile, anzi umiliante per me. Ma la prova de' miei dubbi non tardò ad offrirmisi nel modo più inaspettato. Una sera il d'Hermòs era venuto a prendermi per accompagnarmi ad un teatro di varietà, ove si dava uno spettacolo nuovo, una specie di «féerie» annunziata con grande lusso di cartelli. La messa in scena doveva essere sorprendente. Il d'Hermòs appunto me ne parlava. — Figuratevi che fra costumi e scenari hanno speso la bellezza di centocinquantamila lire. L'ultimo quadro, che rappresenta il Palazzo dei Veli nell'isola di Lesbo, è un insieme di colori e di luci come non si è mai veduto ancora, neanche su le scene maggiori. E la musica, senz'esser nuova, — non c'è mai nulla di nuovo a Parigi — è però squisita. Infine questo spettacolo sarà il trionfo o lo scacco definitivo del Duvally. — Duvally, avete detto? — L'interruppi con un moto repentino. — Sì, Duvally, Ernest Duvally, il fallito dell'Alcazar, che oggi vuol imbandire al buon pubblico uno spettacolo sbalorditivo. In passato fu impresario drammatico; adesso, ad ogni costo, vuol esserlo di varietà. Lo conoscete forse? — No, non lo conosco; tuttavia questo nome non mi riesce nuovo. Lo avrete forse letto nei giornali. — Credo piuttosto di averne inteso parlare a Roma, o qui... non ricordo bene a che proposito. Dev'essere un tipo singolare. — Perchè? — Quest'uomo che passa dai teatri serii alle imprese di varietà... — Oh, questo non conta! È un uomo al quale non mancherà la fortuna, perchè conosce a fondo il teatro. — È giovane? — Avrà forse trentotto anni. Un bell'uomo simpatico. È di buona famiglia, ma si è rovinato al gioco. — Lo conoscete voi? — Sì; perchè? V'interessa proprio questo Duvally? — No, affatto: una curiosità. — Durante lo spettacolo saliremo in palcoscenico, ve lo presenterò e sarete soddisfatto. — Va bene, va bene. E mi rammentavo quella camera dell'albergo di Roma dove per caso avevo raccolto da terra il telegramma lacerato a metà. Quante cose da quel giorno lontano! Quante volte avevo sorpreso Elena in contraddizione palese con la storia che mi aveva narrata! Ella aveva la manìa di conservare una quantità di piccole cose che avevano appartenuto

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Argomenti: medesimo tempo,    giudice sereno,    classe innumerevole,    bocca schernevole,    semplice simpatia

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