L'amore che torna di Guido da Verona pagina 64

Testo di pubblico dominio

scriverti, Germano, e lo faccio per una sola volta, non volendo lasciare senza risposta le lettere che mi mandi ogni giorno. Ma sarà l'ultima. Ho troppo sofferto per poterti scrivere. Del mio dolore non guarirò mai. Questa certezza deve bastarti, se veramente mi vuoi bene. Sentirai parlare di me — io di te; ma dovremo rimaner estranei, e tu non far nulla per avvicinarmi ancora. Te lo chiedo come una preghiera ultima, e sia per te un dovere l'esaudirla. Un giorno forse — quando ti saprò felice — ti dirò ancora una cosa, quella che stava per sfuggirmi, al treno, mentre partivi. Ma tu non la domandare. Avevi nelle mani la mia felicità e l'hai lasciata cadere; io non possedevo la tua, perchè altrimenti l'avrei custodita, invece di rinunziare a te. So una cosa: il tuo cuore non amerà mai — il mio mai più. Fra qualche giorno cambierò casa... È tutto. Addio. Elena» Vi son giorni della vita in cui pare che un naufragio immenso accada intorno a noi; pare che si spenga il sole anche su le memorie più lontane, anche nell'anima, e per sempre. Viene una voglia neghittosa di chiudere gli occhi e dormire il sonno dell'oblìo, perchè tutte dispiacciono tediano e spaventano le cose che rifulgevano come fiamme all'ápice dei nostri desiderii. Come una morte nella vita, queste agonie della speranza lasciano in chi le soffre un segno duraturo. Tale mi ritrovai, leggendo la lettera di Elena; e, sotto la tempesta che passava, mi sentii cadere come un uomo esausto, condannato a non levarsi più. Ero disertato, espulso, vinto; la temerità cessava, l'ascensione aveva una vertiginosa caduta. Ero giunto a quell'ora, tristissima fra tutte, in cui l'uomo comprende come la sua piccola superbia non basti a vivere, come tutto sia precario ciò che non viene dal cuore. Imparavo a conoscere la solitudine, la vergogna, la paura, compagne desolanti, e andavo, incredulo ancora della mia sorte, verso una specie di esilio definitivo. Ebbi la voglia di risollevarmi e non l'energia per lottare; volsi nella mente le idee più pazze; volli tornare da Elena, inginocchiarmi, supplicarla di riprendere la nostra vita, e mi sentivo capace d'ogni sacrifizio pur di non perdere questo amore. Le scrissi, non rispose; quando fui sul punto di partire, compresi che sarebbe stata una inutile follìa, e per non parere vile, chiuso nella fierezza rimastami, cercai che il mio cuore la dimenticasse. Ma ella veniva la notte, d'improvviso, a dormire fra le mie braccia, e con triste furore le prodigavo i baci che struggono come attimi di morte. Furtiva, era dietro i miei passi, ed in ogni cosa ritrovavo una lontana memoria di lei. La sua voce mi saliva nell'anima come una distante musica; a volte mi pareva di attingere la mia vita nel suo caldo respiro, a volte mi pareva che si aprisse una porta e la vedessi d'improvviso entrare, più bella, più sorridente che mai. La portavo in me come un male inguaribile, come una gioia senza nome; tutta la luce del mio mondo interiore s'irradiava intensa dalla sua grande bellezza. Ludovico mi preparò la casa e v'andai ad abitare. Mi parve una prigione, l'odiai. Vivevo due vite diverse: una, fra le mie piccole miserie, l'altra, seguendo i passi dell'amante lontana. Non avevo denaro; per sopperire alle prime necessità dovetti vendere ad un orefice un antico gioiello di famiglia, che mia madre aveva gelosamente custodito. L'amministratore non sapeva più a che santo votarsi per pagare almeno gli interessi a quelli che vantavano crediti antichi; stava trattando una vendita e mi diceva di pazientare. Soffrivo d'insonnia, mi alzavo prestissimo e facevo lunghe passeggiate, solo, triste, per i colli di Roma. L'aria satura di fragranze mi dava talvolta una specie di vertigine; sentivo in tutte le membra una stanchezza mortale; dovevo sedermi, chiudere gli occhi, fortemente respirare. Evitavo le strade frequentate, i ritrovi d'amici; gli sguardi altrui mi ferivano come scherni muti. Fabio veniva da me la sera e Ludovico ci allestiva il pranzo. Povero Fabio! Quanta bontà fraterna era nelle sue parole! M'ero confidato con lui; quell'anima dolce sapeva comprendere tutti i dolori. Mi guardava lungamente, fra le nuvole di fumo delle nostre innumerevoli sigarette, poi diceva: — Non mi piaci! non mi piaci, Guelfo! Ti devi distrarre, se no finirai con ammalarti. Io ridevo, e cominciavo a parlargli di Elena, sempre di Elena, e della mia felicità spezzata. In sèguito egli mi venne a prendere, mi condusse a pranzar fuori di casa, m'accompagnò al Circolo, dove ritrovai gli amici d'una volta che facevano le stesse cose, ripetevano le stesse celie di due anni addietro. Godevo credito; giocai, vinsi, riperdetti. Nessuno mi domandò di Elena, come per un'intesa pattuita; solamente Camillo Ainardi una sera, giocando, mi disse: — Andrò a Parigi verso la fine della settimana. Non hai commissioni a darmi... per il teatro dell'Athénée? Risposi di no seccamente; gli altri mi guardarono sorridendo, e il discorso mutò. Il marchese della Pergola mi conduceva ogni giorno a fare lunghe gite in automobile, raccontandomi con la sua voce un po' infantile tutto quello ch'era accaduto in Roma durante la mia assenza. Si tornava sul far del crepuscolo, ed allora cominciava con prendermi ogni sera un mal di capo così violento e assiduo che, rincasando, bisognava mi coricassi; nessun rimedio valeva per togliermi quel martellare. Durava sin verso la mezzanotte, poi mi addormentavo d'un sonno angoscioso, interrotto. Quando fu prossimo il ritorno di Edoarda e il tempo delle sue nozze, lasciai Roma per recarmi a Torre Guelfa e stipulare la vendita delle terre di Monte San Biagio, vendita che l'amministratore aveva intavolata con l'ambizioso e rapace Rossengo. Oh, di quella casa non dimenticata, come da lontano risplendevano le finestre quando vi giunsi ad un calar del sole, sul barroccio di Lazzaro, che m'accompagnava! E, nel cuore popolato di memorie, che intraducibile sofferenza muta! Fiorivano tutte le siepi e dalle campagne lontanamente invase da un tenue color di viola, primo vapore della notte, venivano su le fragranze vegetali delle praterie nuove, miste con l'odorar forte dei giacinti selvatici, dei bianchi narcisi, che a migliaia constellavano le riviere. C'era già qualche rosso di papaveri tra le spighe recenti, ed eran vivaci come le creste dei galli, che traversando l'aia dei cascinali s'andavano maestosamente ad appollaiare. Guardavo, ai due fianchi della strada maestra, la terra che non sarebbe stata più mia; guardavo in alto, verso il castello sovrastante, le finestre delle stanze nelle quali era passato l'amore, passato per non più tornare, sotto il cielo di un'altra primavera, come certi voli di rondini che passano una volta sola e paiono destinati a non fermarsi mai. Lazzaro mi raccontava; mi raccontava delle mietiture e dei raccolti, della torre a cui durante l'inverno s'era fatta una gran fessura nella muraglia, ed erano l'edere che la stringevan troppo od i serpenti che vi strisciavano su; de' suoi figli ch'eran tutti sani e robusti ed il maggiore stavasi per fidanzare, della sua donna che aveva l'altr'anno avuta una sesta doglia, ma infruttuosa, e delle viti che toccavano terra, l'autunno scorso, con i lor tralci ricurvi, sicchè bisognava poggiarli ad altri alberi più forti, — e delle processioni, e delle sagre, e della cavalla saura che s'era spezzata una giuntura, cadendo con il barroccio in un fossato, a gran rischio di uccidere il ragazzotto che la guidava, una sera buia, nel Dicembre. Di questo non erasi potuto consolare. La bella saura stelleggiata in fronte, che andava come se la portasse il vento, tutta scatti e volate, vibrante come un arco teso, fra criniera e coda. Così Lazzaro mi raccontava, ed io, mollemente appoggiato alla spalliera del barroccio, lo ascoltavo tra l'amarezza di altri pensieri, volendogli bene, perchè tutte queste cose appartenevano al tempo di Elena, erano state sue e mie, medesimamente. Su quel barroccio, dov'io sedevo,

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Argomenti: monte san,    due vite,    naufragio immenso,    triste furore,    antico gioiello

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