L'amore che torna di Guido da Verona pagina 62

Testo di pubblico dominio

dolorosamente si ripercoteva nel mio cervello sperduto. Ci fermammo a piè del treno, davanti ad uno scompartimento aperto, nel quale gettai tutto quanto portavo con me. Un uomo venne, mi domandò il biglietto, lo diedi. E restammo vicini, con gli occhi fissi negli occhi, pieni di stupore, in silenzio. Gente passò, impiegati gridarono; per tutta la lunghezza del treno si udiva uno sbattere di sportelli. Quando giunsero al mio, la strinsi fra le braccia ancora, fin ch'ebbi fiato, poi salii nel treno, chiusero, e m'affacciai. Si era fermata un passo lontano, rigida come una statua, con le mani congiunte sul grembo, un piede appena discosto dall'altro, un ginocchio che le formava un piccolo rilievo su la gonna scura. Intesi un crepitar di ruote, il treno si mosse con fatica, e mi parve che la vedessi lontanare, già piccola, già perduta. — Addio... addio... — le gridai, sporgendo il braccio. Ella camminò come per seguirmi, e tese la mano senza giungere alla mia. — Senti... — balbettò, — volevo dirti una cosa... Io... Ma non disse nulla; di colpo si fermò con una specie d'urto, e rimase lì a guardarmi, del tutto immobile, su l'orlo del marciapiede. — Dimmi, dimmi?... — le gridai, mentre partivo. E súbito lo spazio fra di noi divenne vasto, lontano, buio. Ebbi un senso quasi di vertigine, che mi costrinse a ghermire le tende. — Addio!... addio!... — gridava il cuore disperatamente, — amore... anima... vita mia!... Divenne piccola, incerta, come una cosa che va nella tenebra e nella tenebra s'occulta... la notte si fece profonda, non la vidi più. I Il treno che mi portò verso Roma, quasi mi diede l'impressione di farmi percorrere una terra sconosciuta. Trasognato guardavo. E le strade bianche dall'Appennino selvoso mi parevano strade ignote, ignote le città biancheggianti tra i primi chiarori dell'alba, e la malsana Maremma e le fuggenti, popolose di bufali, praterie della Campagna. Nell'aurora, mentre la primavera laziale metteva sopra tutte le cose un colore indefinibile di eternità, lontana e raggiante Roma mi apparve, Roma dalle cento basiliche, simile a una grande isola, tutta bianca di palazzi, che stupendamente apparisse fuor da un oceano di vapori. Quando vi giunsi, eran le undici del mattino; l'aria limpida balenava nella Fontana di Termini. Oh, viaggio indimenticabile, dovess'io vivere mill'anni! Scesi. I miei passi erano grevi come se nelle vene mi pesasse l'inerzia d'una estenuante fatica; dentro il cervello stordito continuava il rombar del treno come un'eco dolorosa. Una stupefazione grande attutiva in me l'acutezza della mia pena e fui come lo straniero che dopo anni di pellegrinaggio, faccia ritorno alla sua casa natale, ma più s'inoltri e più tema, davanti al pensiero di trovarla deserta. Mi sorprese il linguaggio che la gente parlava, mi sorpresero i lor gesti e l'aspetto delle contrade note. Ritornavo, ma non ero più che l'ombra di me stesso: anzi un estraneo solamente, un triste caduto; ritornavo con l'anima inerte, fasciata in un immenso dolore. Nella città ch'era stata mia, or m'attendevano sguardi curiosi e cuori chiusi, nella città stessa ove il mio fasto mi aveva data una effimera gloria e la mia vita era stata un esempio per molti. Non avevo avvertito alcuno del mio giungere, neanche Fabio perchè un poco di solitudine mi sarebbe stata necessaria in quel primo ritorno. A Ludovico, il mio domestico, non avevo potuto scrivere, ignorando se avesse preso in quel frattempo un altro servizio; e così dovetti scendere all'albergo. Le vetture da forestieri attendevano allineate; mentre ne scorrevo le insegne, un conduttore mi si avvicinò, salutandomi garbatamente: — Ben tornato, signor conte. Mancava già da un pezzo! Sul berretto, a cifre d'oro, portava il nome dell'albergo nel quale aveva dimorato Elena durante il suo soggiorno a Roma. — Oh, siete voi? — feci con una commozione subitanea. E mi parve di ritrovare un amico. — La signora non è tornata con lei? — mi domandò egli con premura. — No, per ora no. Prendete la mia borsa e chiamatemi una vettura. Le strade formicolavano di gente chiassosa, inoperosa. Guardavo intorno con una curiosità stanca, rievocando memorie lontane, pensando alle partenze ed ai ritorni che si fanno nella vita, pensando all'amore che si dimentica per via, alla ricchezza che passa, all'invidia che segue da presso quando si domina, ed allo scherno che assale da ogni parte allorchè si precipita... Oh, commedie della vita... decadenza, imbecillità! Giunto all'albergo scrissi tosto un biglietto al portinaio di casa mia, perchè facesse ricerche di Ludovico e, se fosse ancor libero, lo mandasse da me. Lo pregavo insieme di farmi avere sollecitamente ogni lettera, man mano giungesse. Indi salii nella mia camera e mi coricai. Un sonno pesante, uno di que' sonni esausti che seguono da presso le grandi sciagure, mi dette per qualche ora l'oblio. Pranzai all'albergo; la sera volli uscire in cerca del Capuano, ma il mio cuore talmente si strinse non appena fui nella strada, che tornai sùbito indietro, mi chiusi nella camera e scrissi ad Elena. Rivedevo lei, nella nostra casa, nel suo letto insonne, al buio, che volgeva gli occhi asciutti verso l'uscio della mia camera vuota. E immaginavo di entrare piano piano, di sedermi su la sponda del suo letto, e prenderla fra le braccia per non lasciarla mai più. Adesso mi ricordavo e bene sapevo intendere tutto quanto mi era sembrato incomprensibile nell'anima sua. Era una creatura dolce, paurosa di amare, nascosta dietro un'apparenza d'insensibilità. La vita le aveva insegnato a celarsi, ma il suo cuore fioriva come una pianta odorosa, che sveli con la sua fragranza il nascondiglio. Nell'amore la sua gran dolcezza era il silenzio. C'erano in lei due diverse anime, che a volta a volta la facevano apparire buona e crudele, sincera e mendace, amorosa e fredda, forte e lieve. La sua bellezza non era tutta in lei, ma le viveva intorno come una immateriale presenza; e le cose che le appartenevano, i luoghi per dov'era passata, i pensieri che faceva nascere, le parole che aveva dette, rimanevano belle. Nella mia vita randagia, fra i sentimenti e le cose, avevo trovato infine un essere d'elezione, ma senza imparare a conoscerlo se non nell'ora dell'abbandono. Perenne tormento, perenne inutilità del mio cuore! Mi sentii malato; una voglia sterile di baci tormentò le mie labbra desiderose; e nell'età virile, quando già si comincia ad inaridire, sentii che la vita in me tornava, che tornava l'amore, come una chiara fontana dissuggellatasi all'improvviso. Ero vissuto sprecando i giorni migliori, d'ogni cosa trastullandomi con una virtuosità senza pari; m'ero sentito forte come pochi, giovine come pochi e temerario contro la sorte; non avevo creduto possibile che un amore, una donna, fermassero a mezzo il cammino questa inebbriante mia fuga. Di fatti ancora ne dubitavo. C'era nel più profondo dell'essere mio, come ai confini d'un lago burrascoso, un tratto di palude morta, ove tutte le ondate più alte andavano a finire senza urto, senza rumore, imputridendo fra melmosi canneti. Là dentro affogava continuamente quella parte di me stesso che pur sentiva il coraggio di vivere nella bufera; là dentro c'erano i dubbi, la perplessità, l'indifferenza, e quel senso dell'inutile universale, dell'ateismo infinito, che su tutto gravava come un cielo basso e plumbeo. Maremma dell'anima, questa parte di me stesso aveva continuamente soffocato la mia volontà, sopraffatto in me i sogni, le speranze, i sentimenti, e mi pareva incredibile che l'amore d'una donna sapesse infine vincere questo mio cuore in cui tutto inaridiva. Mi rammentai la frase che avevo scritta nel libro d'ore della dama romana: «Passare, passare, passare... ineffabile vita!» E risi amaramente perchè quei tempi eran lontani, l'anima mia profondamente mutata. Il giorno dopo, mentre stavo ancora vestendomi, venne Ludovico, ed aveva gli occhi umidi nel rivedermi. Strinsi

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Argomenti: colore indefinibile,    piccolo rilievo,    primavera laziale,    stupefazione grande,    perenne inutilità

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