L'amore che torna di Guido da Verona pagina 22

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quanto la cosa era difficile, impossibile forse. Allora si ricordò dell'uomo che poteva, egli solo, prestarle un aiuto molteplice o divenirle il più forte nemico, e presa l'ultima risoluzione, un giorno l'andò a cercare. Le fu risposto che il Duvally erasi di nuovo recato a Roma, la settimana innanzi, e che vi sarebbe rimasto alcuni mesi, per faccende che aveva laggiù. Ella non conosceva Roma: il nome stesso d'una città ignota rappresentava, per il suo cuore di errante, una bellezza più luminosa della vita, una più grande anima da indovinare. Allora una mattina partì col treno che di Francia vàlica le gloriose Alpi, e scese verso Roma incoricabile, Roma dalle cento basiliche, Roma la regina dei secoli, che brilla e canta sul divino Tevere... L'alba era già bianca dietro i vetri, quand'ella finiva di raccontare. I. Ogni mattina, con una puntualità irritante, giungeva a Torre Guelfa il procaccia, portando una lettera di Edoarda, e tutti i giorni, alla stessa ora, con lo stesso tono di voce, Marta, la figlia di Lazzaro, battendo all'uscio della nostra camera mi annunziava dalla soglia: — Una lettera per il signore. — Bene: méttila nel mio studio. I giornali e l'altra corrispondenza venivan per consueto nel pomeriggio; ma essa, quella busta cinerina, con un suggello di ceralacca violetta, con l'indirizzo che pareva sempre ricalcato sul medesimo stampo, metteva quasi uno studio particolare nel giunger sola, immancabilmente sola, come se mai non la ferissero i disguidi postali nè le traversìe del viaggio. Di quella lettera tutto mi affliggeva: la forma, la scrittura, lo stile, il senso, la monotona tristezza. Prima di leggerla, quasi ne sapevo a mente il contenuto, e l'odiavo sopra tutto per quella oscurità che, al suo giungere, si diffondeva nel viso di Elena, l'odiavo per quella tristezza momentanea ch'essa faceva scendere sul nostro amore. Frattanto, per giustificare il mio lungo soggiorno a Torre Guelfa, avevo intessuta una storia così complessa di menzogne, ch'io stesso non mi raccapezzavo più. Qualche volta i pretesti erano grossolani ed in ogni mia lettera non v'era che lo sforzo continuo, man mano più palese, di preparare all'imminente risoluzione l'animo ed il pensiero di Edoarda. Già da qualche tempo avevo scritto al Capuano la lettera concertata ed egli s'era più volte recato a visitar Edoarda, senz'avere a sua volta il coraggio di affrontare quel temibile discorso. «Ho meglio riflettuto, — egli mi rispose, — e sempre più credo che tu agisca sotto l'impulso d'una esaltazione momentanea, dopo la quale il pentimento non tarderebbe a sopraggiungere. Vorrei farti ancora un ultimo ragionamento, prima di mantenere la triste promessa che ti ho data. Ecco: e parliamo di te solo, consideriamo la cosa dal lato della tua sola utilità. L'amore finisce in tutte le anime; ciò che non finisce mai, in uno spirito come il tuo, è il bisogno della ricchezza, del piacere, la smania di soddisfare la tua grande ambizione, poichè non riesco a figurarmi quale uomo saresti nella miseria. Ora, il gesto che vuoi compiere su l'orlo del precipizio è straordinariamente assurdo. Siamo pratici, siamo brutali! C è una fanciulla che ti può rendere il denaro disperso in tanti anni, che ti può d'un colpo ricollocare in quel patriziato dal quale decadi per necessità; ebbene, fa una cosa: prendi tempo, rifletti, esaurisci prima questo nuovo amore. Hai trovata una simulazione felice: la nevrastenìa. Non sarai forse creduto, ma in ogni modo insisti. Poi cerca un altro argomento specioso, per esempio: la dignità. Secondo quanto mi scrivi, non hai trovato ancora il modo di prorogar l'ipoteca su le terre di Monte S. Biagio. Lo stesso Piero Capponi, quel mansueto cannibale, subodorando il vento infido, non ne ha voluto sapere. Io non sono tanto ricco da poterti aiutare in questa contingenza, quindi, fra poco tempo, la tua rovina sarà pubblica e l'asta delle tue terre solleverà grande rumore in Roma. Fatte queste premesse, credo che, a forza di cavilli e di sofismi, non ti sarebbe difficile far intendere a Edoarda come tu, «da uomo dignitoso», non possa permettere che la rovina ed il matrimonio, due avvenimenti così opposti — o, se vuoi, così rassomiglianti — vengano proprio a coincidere. È un tema che si può svolgere con molto vantaggio e con molta elasticità.... Chiedi allora una lunga dilazione; rendi la promessa che hai ricevuta, senza ridomandare la tua. Il gesto è meno ruvido, e il rimanente verrà da sè. Partirai da Roma per qualche tempo, e guarirai se ti piacerà guarire.... Io penso che questa cura farà molto bene alla tua salute.» Questa lettera di Fabio mi aveva irritato assai. Gli risposi, ammettendo in parte le sue considerazioni di opportunità, ma dichiarandogli che non intendevo affatto scegliere una strada obliqua nè frapporre un ulteriore indugio. Lo pregavo inoltre di non ritogliermi l'aiuto promesso, ed anzi di venire a Torre Guelfa, onde potessimo concertare insieme un piano definitivo. Egli rispose che sarebbe giunto alcuni giorni più tardi. La nostra vita scorreva intanto in un soave oblìo. Ella era insieme la più delicata e la più incomprensibile amante. Il suo fresco viso empiva le stanze del castello taciturno e pareva, tra quel silenzio di cose decrepite, suscitare improvvise giovinezze. Torre Guelfa, la rocca dei Materdomini, difesa un tempo con molta rupe e molto ferro, non era più che una confortevole casa di campagna, sorgente in mezzo a prospere fattorie, sovra un alto colle, presso le cascatelle del fiume. Corridoi profondi e stanze vaste, con tapezzerie sbiadite, con vasti mobili tutelari, foggiati alla guisa che amarono gli uomini rudi, usi alle fatiche delle armi, per gli ozi dei loro ben custoditi castelli; v'erano tendami grevi, che parevano spiovere assecondando quasi un desiderio di silenzio, e camini alti, pavimenti a mosaico, letti profondi, e per tutto quell'odor diffuso del buon legno antico, della immateriale polvere che lascia il tempo nelle abitazioni chiuse. Elena ed io spesso non osavamo interrompere quella specie di raccoglimento che piegava sotto il peso delle memorie la solenne anima della casa, e, taciturni, stavamo ad ascoltare lo scricchiolìo delle porte sui cardini o quel tremore inesplicabile che assaliva talvolta i vetri degli armadi monumentali, percorrendo anche le racchiuse argenterie, le porcellane, i vasi di cristallo. Amavamo che le serrature fossero un poco arruginite e gli scaffali avessero accolta nelle invisibili tarlature quasi una polvere divenute colore, ed alcuni specchi rimanessero velati dietro una cortina di mussola, ed anche le cornici dei quadri mostrassero, fra le dorature offuscate, qualche macchia verdognola, come licheni su le rupi asciutte. V'era, per esempio, nella sala grande, legato all'intarsio d'uno stipo con un nastro senza più colore, un calendario di vent'anni addietro, il quale, sopra un foglio giallo, segnava il giorno ventidue di Novembre — Santa Cecilia Vergine — un venerdì. Oh, com'era pieno di mistero quel calendario vecchio di vent'anni, fermatosi ad una estate di San Martino! E, chissà mai per qual motivo, dopo quel giorno così remoto la mano calma dell'abitatrice non aveva potuto sfogliarlo più.... Così pure, in un angolo, dal braccio proteso di una statua moresca d'ebano dipinto, pendeva una borsa da lavoro, fatta di una stoffa che pareva broccato, a fiorami verdi e oro, con molta polvere nelle sue pieghe. Di fianco al pianoforte erano fasci di spartiti ammucchiati negli scaffali da chissà quanti anni, e lì presso, da un vaso di maiolica, fioriva pomposamente un grande mazzo di penne di pavone. Tutte queste cose parevano essere le abitatrici del luogo taciturno e maravigliarsi della luce, infastidirsi del rumore. Non avevo mai voluto che gli operai ponessero mano a rinnovar questa dimora, in cui facevo per il consueto brevi e radi soggiorni al tempo dei raccolti. Il giardino era vasto, invaso dall'esuberanza dei

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Argomenti: grande anima,    studio particolare,    grande rumore,    calendario vecchio,    grande mazzo

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