L'amore che torna di Guido da Verona pagina 60

Testo di pubblico dominio

nella sua camera, chiuse l'uscio a chiave, ed intesi che si era lasciata cadere sul letto. I bauli rimasero aperti, le biancherie sparse, io solo, senza poter comprendere, senza pensare. Poi lentamente scomparve la striscia di sole; venne il crepuscolo; da una finestra malchiusa entrò qualche alito d'aria fredda; nell'ora del tramonto quella giovine primavera pareva un grigio inverno. In quella penombra mi guardai d'attorno, come per raccogliere in me una memoria d'ogni cosa. Non vidi che mobili vuoti, cassetti aperti, armadi sguerniti, qualche involto su le seggiole, qualche lembo di giornale a terra, e nel mezzo della camera i due bauli spalancati, che parevano sbadigliar di noia, come pigre bestie che si destassero da un polveroso letargo. Lentamente l'ombra cresceva, e con essa i pensieri si facevano più foschi. Dicevo a me stesso: «Tu non hai saputo essere felice; ora sappi non piangere». E dicevo a me stesso: «Perchè ti disperi? Non hai tu stesso accettato e preparato questo necessario abbandono? Tu, che non hai fatto nulla per il tuo amore, null'altro che aspettarne la fine, perchè lo rimpiangi ora come un grande bene che ti fosse ritolto? Perchè questa irresolutezza? Sii forte! Non cedere alle commozioni che tu stesso ti elargisci. La tua natura d'istrione ti soverchia l'anima. Tu l'ami l'amore ed ami il dolore, ma in verità non ami e non soffri. Sei crudele anche; la tua crudeltà non ha nome. Va! Ti aspetta un'altra vita, la sola che a te convenga. Altre mani di donna, che hai già respinte, ti offriranno forse ancora la coppa ricolma.... Va e bevi!» Ma insieme con questi pensieri, qualcosa di vero e di grande, un sentimento ancora ignoto, sorgeva; ed era finalmente l'amore, l'amore triste, inguaribile, angoscioso, pieno di gelosie, di paure, che duole come una ferita ed inebbria come un liquore. Raffinato e perverso, questo amore mi piacque; mi piacque avere nell'anima, per sempre, un flagello, in quest'anima su cui tutte le passioni erano scivolate senza imprimervi un solco. Era il mio primo amore: in quel momento avevo ancora vent'anni. Più tardi ella s'affacciò all'uscio, per dirmi, come diceva sempre: — Vieni, è l'ora del pranzo. — Elena... — la chiamai, sollevandomi con il gomito sui guanciali. Ma ella si ritrasse rapida e non rispose. Pranzammo vicini, tristemente, per l'ultima volta. Ella vide che avevo pianto, io vidi gli occhi suoi segnati all'intorno da una grande ombra. — Perchè non mangi? — le domandai. — Non ho fame. — Indi una pausa: — E tu? — Nemmeno. Presi una posata e l'esaminai: v'erano le mie cifre, la mia corona, incise. La feci battere su la stoviglia e dissi: — Ti ricordi quando abbiamo comperata quest'argenteria? Ella si ristrinse nelle spalle, chiudendo gli occhi, abbassando il viso; — Sì, mi ricordo. Elena faceva ella stessa il caffè; quando l'ebbe versato nelle tazze, trangugiò in fretta qualche sorso, poi fece atto di levarsi. — Dove vai? — Di là. — Dove? — Nella mia camera. Detti in uno scoppio di riso acre: — Ti annoia tanto la mia presenza? Domani non ci sarò più. In silenzio ella tornò a sedere. — Che male ti ho fatto perchè tu mi debba odiare? — soggiunsi. — Non hai pietà veramente! Ora ti conosco bene. — Chi di noi due non ha pietà? — ella chiese con la voce spenta, illuminandosi d'un amaro sorriso. E continuò: — Cosa vuoi da me dunque? che mi butti alle tue ginocchia e ti supplichi di non partire? Questo no! Il mio carattere non lo consente. So che non possiamo più vivere insieme; so che, lontano, puoi ritrovare la felicità, e mi sopprimo assolutamente, scompaio, cerco di render facile quest'ora, che un'altra si compiacerebbe forse di render tragica. Dimmi: cosa puoi chiedere di più ad una donna, e sopra tutto ad un'amante? Le andai vicino, e chinandomi su la sua bocca, poichè sentivo che non mi avrebbe respinto: — Cosa farai senza di me? — le chiesi. — Non so! non so!... — rispose concitata. E scuoteva il capo, e serrava le palpebre, come per sottrarsi ad ogni pensiero. Le cinsi con un braccio la vita, e lievemente, con il timore delle prime volte, la baciai. Dalla veranda, che avevo aperta, soffiavano gli aliti della sera; un profumo di tigli e di timi odorava da nascosti giardini. Uscimmo sul terrazzo, ci appoggiammo a lato su la ringhiera: in alto scintillavano le stelle infinite. — Che farai senza di me? — le chiesi ancora. Giungeva dai Campi Elisei, or forte, or tenue, sul vento, un frastuono di liete orchestre serali; molti lumi tralucevano entro il nereggiare degli alberi, ininterrottamente, dando a quel lembo di città l'aspetto d'una fiera notturna, che brillasse nella confusa distanza. — Che bella notte! — esclamai. — Che triste bellezza mandano tutte le cose quando si deve partire! Salivano canzoni di gioia, tra le folate d'aria. — Non senti come tutti sono allegri?... Cantano, ridono, gli altri!... Possono ridere, possono amare, mentre noi.... Dallo sbocco della strada, fra due lampioni quasi fosforescenti, si vedevano passare carrozze, vetture, l'una dietro l'altra, senza tregua, con la lentezza di un corteo. Subitamente mi afferrò il desiderio di confondermi anch'io, di perdermi anch'io, per l'ultima volta, con la donna che amavo, tra quella gente spensierata, in mezzo a quella città di piacere che suscita implacabili crudeltà e smoderate ambizioni. — Usciamo, — le proposi. — Mettiti un cappello e vieni con me: qui si muore! — E là?... — diss'ella semplicemente. — Là si canta, c'è molta luce, molto riso... Vieni, ho voglia di stordirmi, di ridere anch'io!... La strada fino ai Campi Elisei era quasi deserta; un profumo di tigli e di timi olezzava da nascosti giardini. XI I facchini si caricarono i bauli su le spalle, con fatica, e li portarono giù per le scale. Dalla finestra noi li vedemmo posare sul carro, che mosse barcollando per la strada, fino allo svolto, e scomparve. Stavamo stretti l'uno all'altro, percorsi da un freddo brivido in ogni vena, senza poterci parlare, senza poterci guardare. Avevamo negli occhi entrambi l'ardore della notte insonne, di cui mi sovvenivano i baci e le lacrime come la memoria di una complicità indistruttibile. Tutto quel giorno contammo il tempo che passava, muti, gelidi, come se in quel giorno finisse la vita. Poi s'intese l'orologio a pendolo nella sala da pranzo battere cinque pesanti colpi, e ci guardammo nel viso percossi dallo stesso pensiero. «L'ultima, l'ultima ora...» La presi nelle braccia e la strinsi così forte che le dovetti far male; con le labbra aride ci baciammo fino al dolore, quasi per comunicarci nel respiro l'anima. Era stato ancora un giorno di sole; ora, su l'imbrunire, vaste nubi scalavano l'orizzonte, sfioccandosi per l'aria, tra un fresco odore d'acqua vicina. Senza dirci nulla, entrambi andammo nella sua camera; ella si mise un cappello nero guernito di rose, coprendosi la faccia con un velo fitto, e s'appoggiò con il dosso alla specchiera dell'armadio per mettersi i guanti. Una rosa che le pendeva giù dal cappello, su l'ala, da un lato, si guardava nello specchio, tutta sbocciata e vasta, tremolando ad ogni movimento che facevano le sue dita nell'abbottonare i guanti. Per aver libere le mani, teneva un manicotto di lontra chiuso tra le ginocchia, in un solco della gonna, e il brillare delle sue scarpine appariva di sotto la balza, con un riflesso fermo. La prima volta ch'era venuta nella mia casa di Roma, s'era messa così contro il camino, ed anche allora portava un velo fitto perchè non la riconoscessero per via. La guardavo trasognato, credendo ancora, per una aberrazione ultima, che un altro partisse, non io, che un'altra donna m'accompagnasse, non lei. Venne Clara e mi portò il cappello, il soprabito, mi diede anche un piccolo involto, forse un oggetto dimenticato. Presi ogni cosa macchinalmente, guardai da una stanza nell'altra, come per raccogliere di tutte la memoria ultima, guardai e vidi ogni cosa,

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Argomenti: cappello nero,    triste bellezza,    freddo brivido,    fresco odore

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