L'amore che torna di Guido da Verona pagina 54

Testo di pubblico dominio

al Grand Hôtel. Vedi un po', ti prego, se ti riesce di mandarmene due o tre scatole. Una donna — penserai — che adopera le perle anche in cipria, deve costarti orribilmente caro! No, rassicùrati, non faccio pazzie. Canterà quest'anno all'Argentina. Scrivimi spesso e mandami tue notizie diffuse. Addio. Capuano» Questa lettera cominciò con farmi pensare. Mi era finalmente necessario un esame di coscienza stretto e logico, sì bene ch'io m'accinsi a farlo. Due strade mi si aprivano dinanzi: o abbandonarmi pienamente nelle mani di Elia d'Hermòs, o appigliarmi con volontà virile ad una risoluzione decorosa, chiedendo alla mia intelligenza il piccolo sforzo necessario per procacciarmi il pane. In questo caso dovevo, per i miei vecchi giorni, serbar intatta la pochissima terra che avrei salvata sistemando le usure, vendere le ultime gioie di famiglia che ancora mi rimanevano a Roma presso un banchiere, e, datomi ad una professione sopportevole, campar la vita che mi restava in una casa modesta, con Elena fin quando ella volesse, poi anche solo, non lieto, non triste, come il maggior numero degli uomini che si accontentano di umili destini. Era la via legittima, da galantuomo, non invidiabile forse, ma chiara e leale. — Ne sarei stato capace? Forse; perchè il bisogno ammaestra e la volontà s'impara. Ma questi atti pieni di una loro bellezza plebea, compiuti da un uomo che professò le abitudini più signorili, muovono in genere un rispetto vicino quasi alla pietà, il qual rispetto, fra tutte le ammirazioni, è certo la meno ambita e la meno lusinghiera. Da un lato adunque il rimedio pacifico, la mediocre serenità, la vita veduta fino all'ultimo giorno senza divario, lenta, quasi monotona, confuso con tutti, io, che fui solo. Non certo la paura m'impediva di abbandonarmi pienamente allo scaltro avventuriero, ma la servile bassezza delle imprese che i suoi bei sofismi velavano a mala pena; non la paura del danno, ma la salvaguardia legittima che dovevo al mio nome; non l'incapacità infine di vincere la mia coscienza, ma lo sdegno quasi atavico per tutte le ineleganze, anche morali. La sola cosa che non mi rimprovero nella mia vita è quella di non aver perduto mai, in alcun frangente, il senso della mia diversità. Essa, nel decadimento, era la mia forza, laddove i sottili sofismi di Elia d'Hermòs non potevano per me rappresentare che la salvezza momentanea, il rimedio passeggero e deprecabile. Fra queste amare vicende, unica e bella mi sorrideva l'immagine di Elena, che sovente lascio in disparte narrando queste mie memorie, per non sciupare il profumo della sua grande anima fra le buie pagine ove si perde la storia dei mio passato. Ella rimane, al di sopra di tutte le vicende, sola ed inaccessibile; fu l'anima che sentii più presso alla mia, più simile al mio celato cuore; fu l'anima che invidiai talvolta, perch'ella non conosceva l'umiltà nè il dubbio, ma era oscura e limpida insieme come una notte piena di stelle. Certo, infuori da tutte l'altre, v'era un'ultima possibilità, v'era un'idea quasi lontana, che si avanzava nel mio cervello, da prima timida e tosto respinta, indi più definita, più certa, più persuadente. «Fra poco — pensavo — Elena affronterà la scena; sarà nota, corteggiata e ricca. Dovrò concederle una maggiore indipendenza, e, forse la gelosia, forse la fierezza, mi comanderanno di creare nei nostri vincoli un mutamento essenziale. Così ella è salva; la nomade si elegge un confine, si assegna una meta, entra ella pure nel numero delle persone che han definito e risolto il problema della lor vita. Io solo rimango, a mezzo del cammino, senza conoscere quel che mi attende nell'incertezza del domani. Ma v'era infatti un'altra, un'ultima possibilità, la quale aveva un nome, un nome pallido, abbandonato, lontano, che faceva male all'anima come la memoria d'una cosa morta, un nome cosparso di cenere, fasciato d'oblio, confuso nella lontananza: — Edoarda. Sì, certo; quando nella vita non è più possibile andar oltre, si può talvolta, quasi per una rimembranza di noi stessi, far ritorno verso ciò che fu nostro. Ed Elena? — fu la domanda subitanea che mi feci. Pensavo dunque di rinunziare a lei con una tranquillità così freddamente priva di rimorso? No. Mi avvidi che il mio calcolo non aveva nemmeno questa rettitudine, poichè ammettevo che fossero entrambe necessarie alla mia vita. Ed allora, — mi domandai, — perchè non ho fatto questo fin dal principio, quando la frode poteva rivestirsi almeno d'un'apparente inevitabilità? Questa Edoarda non era dunque più il giogo aborrito, la creatura stanchevole, presso la quale il mio spirito ed i miei nervi soffrivano di ribellioni veementi? Non seppi rispondermi con esattezza, e tuttavia mi parve che potessi ricordarmi di lei senza provare alcun senso di avversione o d'inimicizia. Poi le lettere del Capuano, a mio malgrado, m'incuriosivano. Il saperla convalescente dal suo fedele amore, quando la credevo per sempre ferita, eccitava in me una specie di sorpresa e di rammarico, rinnovandola quasi a' miei occhi. L'idea ch'ella potesse aver pensato ad altri dopo di me, quasi mi diminuiva nell'orgoglio, e talvolta, nella visione che di lei serbava l'anima inobliosa, m'accadeva di rivedere quella pallida creatura spirituale che un giorno mi aveva sedotto con la sua fragilità. Verso la fine di quel Novembre il d'Hermòs abbandonò la Francia, dopo avere inutilmente insistito perchè lo seguissi, non più in America, ma nel sontuoso Cairo e su le rive millenarie del Nilo. — Ti auguro — mi disse nel salutarmi, — che al ritorno tu mi dia notizia d'un secondo fidanzamento. Ricorda i miei consigli e, se hai bisogno di qualcosa, scrivimi. Partì. Quando fu lontano, m'accorsi ch'egli non era peggiore di molti altri, poichè aveva una intelligenza profonda e fors'anche una bontà nascosta. Mi trovai più solo; egli era fra quegli uomini che aiutano a vivere e presso i quali tutte le difficoltà sembrano lievi. Il 17 Dicembre Elena doveva esordire al teatro. Per una strana coincidenza quel giorno era pure il compleanno d'Edoarda. Me ne ricordai due giorni prima, subitaneamente, camminando per via. Negli occhi ebbi la visione di quel grande palazzo, con tutte le sale adorne di fiori e di canestre, come una volta nel giorno anniversario... Pensai la sua tristezza, la mia, lontani, sotto il peso delle memorie, con un desiderio diversamente inutile nel cuore... Mi trovai ridicolo, scossi il capo e camminai oltre. Dopo alcun tempo la visione tornò. — «Perchè non mandarle un fiore? — mi dissi; — un fiore muto, che appassirebbe lungo la via?» Per l'appunto v'erano in mostra, nella vetrina di un fioraio, certe bellissime rose primaverili, mentre l'inverno frizzava per l'aria con presagi di neve. Andai fin su la porta, poi la cosa mi sembrò puerile, romanzesca, e tornai via. Più oltre vidi un grande ramo di orchidee, con sei magnifici fiori uniti, d'una indefinibile tinta, tra l'azzurro, il viola ed il color malva. Le orchidee, nell'ovatta, viaggiano per lunghi giorni e la distanza non le fa sfiorire... Entrai senza riflettere, comprai quel ramo, lo feci comporre in una cassetta, delicatamente, come un gioiello dentro un astuccio, e quando si trattò di dare l'indirizzo, stetti un momento in dubbio fra me stesso — poi detti quello di casa mia... per Elena. Che mistero inestricabile, il cuore dell'uomo! Elena intanto si apparecchiava per la sua grande ora, e quel giorno, anch'esso, fu triste. Sentii che quell'avvenimento poteva segnare una data ben dolorosa nel nostro amore, poichè da quel momento ella cessava di esser una cosa del tutto mia, per offrirsi agli occhi della folla multanime, da una ribalta, ove l'avrebbero avvolta i mille desiderii degli sconosciuti, come in una carezza impura. Recitò in una commedia nuova di Maurice Donnay; l'accoglienza del pubblico fu clamorosa; i giornali e le riviste inneggiarono a lei: per le strade i cartelli portarono

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Argomenti: grande anima,    volontà virile,    piccolo sforzo,    sforzo necessario,    servile bassezza

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