Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 96

Testo di pubblico dominio

esempio ha egli portato con sè, partendosi? Che ha egli avuto da voi? Un rifiuto. Chi non ha cura dei suoi, ha negato la fede, è peggiore dell'infedele. La sentenza è terribile, ma non viene da me: è del vostro Maestro, e del mio.» Il Cardinale cessò di parlare, ma nel suo volto composto al silenzio si dipingevano ancora i sentimenti che avevano mosse le sue parole, e che le sue parole avevano accresciuti: l'ira senza peccato, la commiserazione, un riflesso di terrore sopra se stesso al ricordo di quei doveri, che gli erano comuni con quello ch'egli riprendeva dell'averli sconosciuti. Don Abbondio sulle prime, quando aveva veduto che s'intonava un rabbuffo, aveva sentito un turbamento, una stizza, una tristezza tutta carnale; non poneva mente al senso della ammonizione, ma al tuono con cui era fatta: e non s'affannava d'altro che di sentirla finire. Ma dalle dalle, la pioggia continua di quelle parole dopo d'avere sdrucciolato su quella terra arida, l'aveva pure penetrata: erano conseguenze impensate, applicazioni nuove, ma d'una dottrina antica pur nella mente di Don Abbondio; il quale cominciò davvero a comprendere quanto la sua condotta fosse stata diversa da quella legge, ch'egli stesso aveva sempre predicata. Taceva egli; ma non più di quel silenzio impersuasibile e dispettoso: taceva come quegli che ha più cose da pensare che non da dire. Il Cardinale s'accorse dell'effetto delle sue parole; ne sentì consolazione e pietà, in un punto, e riprese: «Queste però, signor curato, non debbono essere le ultime nostre parole su questo affare. Sa il cielo come io avrei desiderato di tener con voi tutt'altro discorso. Siam vecchi entrambi: sa il cielo se m'è doluto di dover contristare con rimproveri questa vostra canizie; quanto avrei voluto piuttosto racconsolarmi con voi delle nostre cure comuni, dei nostri guaj, col pensiero della beata speranza, alla quale già già tocchiamo. La mezza notte è vicina; lo Sposo non può tardare: colmiamo d'olio le nostre lampade, affinchè non sieno estinte al suo arrivo. Riempiamo il nostro cuore di carità: essa sola è eterna; essa sola può raddolcire quel momento. Amiamo, e sarem forti; amiamo e le debolezze, che pur ci rimarranno, saranno coperte e perdonate.» Federigo fece ancora pausa a queste parole: Don Abbondio non ruppe il silenzio, ma il Cardinale vide ch'egli gli assentiva con l'animo, e continuò: «Il male avvenuto è irrevocabile; ma non irreparabile; speriamo. Le sventure di quei due poveretti possono ancora tornare in loro bene, e in bene vostro. Chi sa quante occasioni Dio vi prepara di soccorrerli, di divenir per essi un padre, di compensare il torto che la vostra negligenza può loro aver fatto. Deh! non le lasciate sfuggire. Deh! non indurate il vostro cuore; non restituite loro, nelle occasioni, l'amarezza che può avervi data questa riprensione, che io v'ho fatta, sa il cielo, per amor vostro non meno che pel loro. Pur troppo, io l'ho più volte esperimentato in questa difficile altezza: il debole che si richiama al superiore, che gli fa conoscere la sua ragione, che ottiene una giustizia, troppo spesso momentanea, peggiora spesso la sua condizione. Quegli che è stato ripreso per sua cagione, tace dinanzi alla riprensione, cede al suo maggiore, ma trova poi il mezzo di fare espiare al debole quel breve trionfo. Son tanti i mezzi di fare avere torto al debole! e colui che ne aveva assunta la protezione, è tanto distratto da altre cure, di sì corta vista, che è facile fargli credere ch'egli si è ingannato alla prima, che ha protetto un immeritevole. Deh! non fate così: poichè quand'anche riusciste a farmi travedere, non sono io quello che v'ha da giudicare. Amate quegli infelici perchè son vostri figli, per quello che hanno sofferto, per l'occasione che v'hanno data di udir la voce sincera del vostro pastore, per l'amore che possono attirarvi da Dio. Amateli cordialmente, e saprete sempre quello che avrete da fare per essi.» «Monsignore,» disse Don Abbondio, con voce commossa, «dinanzi a voi e dinanzi a Dio prometto di fare per essi tutto quello che potrò. Ma Vossignoria illustrissima pensi a mettere un buon guinzaglio a quel cane. Vossignoria ha avuta la degnazione di dirmi che avrebbe tremato per me povero prete: sappia, Monsignore, che v'è da tremare ancora, perchè quando Vossignoria sarà a far del bene altrove, costui tornerà qui a fare alla peggio.» «Dio l'ha già atterrito senza di voi, senza di me,» interruppe Federigo, «voi lo avete veduto fuggire: non è questo un pegno dell'aiuto celeste? Ma io non lascerò di mettere in opera ogni mezzo umano che sia in poter mio. Porrò in sicuro quella povera giovane, che non lo sarebbe forse qui: chiederò conto di quegli che le era promesso; e s'egli è innocente... se le mie parole possono giovargli... Dio buono son tanto sospette le parole in bocca nostra! Pure io spero in Dio. Quanto a quel Signore, spero pure di poter fargli sentire che v'è chi non ha paura di lui, e può fargliene. Ad ogni modo, ricordatevi ch'egli non può uccidere che il corpo, e temete Quel solo che può perdere il corpo e l'anima.» «Ah l'anima! è vero pur troppo!» disse Don Abbondio, lasciando interrotta la frase che il suo pensiero compì a questo modo: – ma se quel birbante mi dovesse uccidere il corpo, sarebbe dura –. «A proposito del corpo,» disse poi dopo un momento, «non per dare un parere a Vossignoria illustrissima, ma per amore di quella regolarità che tanto le piace, mi faccio lecito di avvertirla che l'ora è avanzata, e che il mio povero pranzo non aspetta che Vossignoria.» «Andiamo,» disse il Cardinale, con un sospiro. Abbiamo detto che il Conte del Sagrato era venuto ogni mattina a quella Chiesa che il Cardinale visitava in quel giorno. Stava alquanto con lui in quell'ora di riposo che precedeva il pranzo, e poi ripartiva. Ma in questo giorno egli era venuto con un disegno che fu cagione di farlo rimanere più tardi. Sapeva il Conte che Lucia doveva tornare alla sua casa: il Cardinale lo aveva informato di questo, anzi gliene aveva chiesto consiglio: perchè, dove si trattava di pericoli, e di cautela, di bravi e di tiranni, non v'era uomo più al caso di dare un buon consiglio: e il Conte aveva confortato il Cardinale ad installare pure sicuramente Lucia nel suo pacifico albergo. Prevedendo egli dunque che quel giorno Lucia si sarebbe trovata dal Cardinale, non vi si presentò all'ora consueta, ma stette nella Chiesa aspettando l'ora in cui il Cardinale era solito di desinare, e quando questa gli parve dover esser giunta, entrò nella cucina, dove Perpetua stava in grandi faccende, e le chiese con umile affabilità di poter ivi trattenersi ad attendere che il pranzo fosse finito per chiedere udienza a Monsignore. Chi entra in una cucina in un giorno di cerimonia, è sempre il mal venuto; ma il Conte aveva una antica riputazione di ribalderia, e una recente di santità, che imposero anche a Perpetua, la quale per levarsi dattorno nel modo più gentile quell'incomodo arnese, propose al Conte d'entrare nella sala del pranzo. «Si faccia avanti,» diss'ella «sulla mia parola: Monsignore la vedrà molto volentieri; e anche il mio padrone, e tutta la compagnia: non faccia cerimonie.» Ma il Conte disse di nuovo che desiderava di attendere ivi in un canto. Perpetua lo fece sedere al posto d'onore della cucina nel banco sotto la cappa del camino; dicendo: «Vossignoria starà come potrà: veramente avrebbe fatto meglio d'entrare coi signori, che quello è il suo posto: basta, com'ella vuole: mi scusi se non posso fare il mio dovere a tenerle compagnia, perchè oggi ho tante faccende: ella vede.» Il Conte sedette, ringraziò, e cavato un tozzo di pane che aveva portato con sè, si diede a mangiare. Quando Perpetua vide questo, non lo volle patire. «Come?, un signore suo pari! non sarà mai detto ch'ella faccia questo torto alla mia cucina. Ecco, si serva: mangi di questo: e lasci fare a me per mandare in

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