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Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 36

Testo di pubblico dominio

sola a sola. Padre guardiano, se ella conoscesse per testimonianza degli occhi suoi i casi di questa giovane, certo ch'io non istarei ora in dubbio: ma ella non li conosce che per relazione: e per me, piuttosto che servire alla violenza fatta ad una povera giovane...» «Il Padre Cristoforo,» disse il guardiano, «che mi ha posto nelle mani questo affare, è uomo tanto oculato, quanto lontano dal favorire una violenza, ed alla sua asserzione io credo quanto ai miei occhi. Stimo però cosa molto savia, che la Signora illustrissima, esamini col suo senno consumato questa faccenda, e spero che l'esame mostrandole la verità dell'esposto, la determinerà ad accordare il suo appoggio a questa famiglia perseguitata.» «Lo spero,» rispose la Signora con una placidezza garbata, e come desiderosa di far dimenticare il trasporto passato: «lo spero: e quel poco ch'io potrò fare, prego il padre guardiano di attribuirlo in gran parte alla sua intromissione. Per ora ecco quello che mi sovviene di poter fare. La fattora del monistero, ha collocata da pochi giorni l'ultima sua figliuola. Questa giovane potrà occupare la stanza abbandonata da quella, e supplire ai pochi servigj ch'ella faceva. Ne parlerò colla madre Badessa, ma da quest'ora, le dò la cosa per fatta, sempre che Lucia ne sia contenta.» Il guardiano proruppe in ringraziamenti, che la Signora troncò gentilmente, ma lasciando però capire che ella faceva assegnamento sulla riconoscenza dei cappuccini. Chiamò quindi una delle monache che le facevano da damigelle, e datele le opportune istruzioni, disse ad Agnese che andasse alla porta del chiostro, per intendersi con la monaca e con la fattora, e per andar quindi a disporre l'alloggio che sarebbe destinato a lei ed a Lucia. Il Padre si congedò, promettendo di ritornare ad informarsi della decisione: le tre donne furono tosto a consulta; e Lucia rimase sola con la Signora a subire l'esame. cap. 2
La signora, tuttavia Le parole della Signora nel colloquio che abbiamo trascritto non annunziavano certamente un animo ordinato e tranquillo; eppure ella s'era studiata in tutto quel colloquio per comparire una monaca come le altre. Ma quando ella si trovò sola con Lucia, ella si studiava tanto meno quanto meno temeva le osservazioni di una giovane forese di quelle d'un vecchio cappuccino. Quindi i suoi discorsi divennero sì stranj, per una monaca singolarmente, che prima di riferirli è necessario raccontare la storia di questa Signora, e rivelare le passioni e i fatti che rendevano tale il suo linguaggio. Questi fatti sono tristi e straordinarj, e per quanto a quei tempi di funesta memoria fossero comuni molte cose che sarebbero portentose ai nostri, l'autorità di un anonimo non avrebbe bastato a farci prestar fede a quello che siam per narrare: frugando quindi per vedere se altrove si trovasse qualche traccia di questa storia, ci siamo abbattuti in una testimonianza la quale non ci lascia alcun dubbio. Giuseppe Ripamonti, Canonico della Scala, Cronista di Milano etc., scrittore di quel tempo, che per le sue circostanze doveva essere informatissimo, e negli scritti del quale si scorge una attenzione di osservatore non comune, e un candore quale non si può simulare, il Ripamonti racconta di questa infelice cose più forti di quelle che sieno nella nostra storia; e noi ci serviremo anzi delle notizie ch'egli ci ha lasciate per render più compiuta la storia particolare della Signora. Queste cose però, quantunque rese più che probabili da una tale testimonianza, e quantunque essenziali al filo del nostro racconto, noi le avremmo taciute, avremmo anche soppresso tutto il racconto, se non avessimo potuto anche raccontare in progresso un tale mutamento d'animo nella Signora, che non solo tempera e raddolcisce l'impressione sinistra che deggiono fare i primi fatti della Signora, ma deve creare una impressione d'opposto genere, e consolante. Avremmo, dico, lasciato di pubblicare tutta questa storia, e ciò per non offendere coloro ai quali il rimettere nella memoria degli uomini certe colpe già pubbliche, ma dimenticate, quando non sieno terminate con un grande esempio, o con un gran pentimento, sembra uno scandalo inutile, comunque uno le esponga. Senza esaminare il valore di questo modo di sentire, noi lo avremmo rispettato, quando ciò non costava altro che di sopprimere un libro. Che se poi altri volesse censurare queste scuse come inutili, e ci accusasse di cader sempre in digressioni che rompono il filo della matassa, e fermano l'arcolajo ad ogni tratto, egli obbligherebbe chi scrive a fare un'altra digressione, e a rispondergli così: – Il manoscritto unico, in cui è registrata questa bella storia degli sposi promessi, è in mia mano: se la volete sapere, bisogna lasciarmela contare a modo mio: se poi non vi curaste più che tanto di sentirla, se il modo con cui è raccontata vi annojasse, giacchè dagli uomini si può aspettar tutto; in questo caso, chiudete il libro, e Dio vi benedica. – Il Padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle sue ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto di nemico giurato, e non di figlia sommessa ed amorosa; superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno della nobiltà della famiglia: ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la convenienza fosse lecito, anzi doveroso; giacchè riguardava come il primo dovere del suo stato il conservarne l'opulenza, e lo splendore: erano questi nelle sue idee, i talenti che gli erano stati dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno domandato ragione. Una figlia nata in tali circostanze, e destinata a dover salvare una tal capra e tali cavoli, era ben felice se si sentiva naturalmente inclinata a chiudersi in un chiostro, perchè il chiostro non lo poteva fuggire. Tale fu il destino della Signora dal primo momento della sua vita; e quando una donzella della signora Marchesa venne con l'aria confusa di chi confessa un fallo, a dire al signor Marchese: «è una femmina»; il signor marchese rispose mentalmente: – è una monaca –. Si pose quindi a frugare il Leggendario per cercarvi alla sua figlia un nome che fosse stato portato da una santa la quale avesse sortito natali nobilissimi e fosse stata monaca; e un nome nello stesso tempo che senza esser volgare richiamasse al solo esser proferito l'idea di chiostro; e quello di Geltrude gli parve fatto apposta per la sua neonata. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le furono posti fra le mani; e il padre, facendola saltare talvolta sulle ginocchia la chiamava per vezzo: madre badessa. A misura ch'ella si avanzava nella puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che prometteva una avvenenza non comune agli anni della giovanezza, e nello stesso tempo ne' suoi modi e nelle sue parole si manifestava molta vivacità, una grande avversione all'obbedienza, e una grande inclinazione al comando, un vivo trasporto pei piaceri e pel fasto. Di tutte queste disposizioni il padre favoriva quelle soltanto che venivano dall'orgoglio, perchè come abbiam detto lo considerava come una virtù della sua condizione; egli era superbo della sua figlia come era superbo di tutto ciò che gli apparteneva, e lodava in essa gli alti spiriti, la dignità, il sussiego, qualità tutte che manifestavano un'anima nata a governare qualunque monastero. Della bellezza nè egli, nè la madre, nè un fratello destinato a mantenere il decoro della famiglia, non parlavano mai; e la Signora ne fu informata dalle donzelle, alle quali prestò fede immediatamente. Benchè la condizione alla quale il padre l'aveva destinata fosse conosciuta da tutta la famiglia, e da tutti approvata, nessuno le disse però mai: –

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Argomenti: uomo tanto,    storia particolare,    grande avversione,    grande inclinazione,    vivo trasporto

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