Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 130

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tutta in furore. Qualche memoria del guasto di quel paese ci rimane in alcune lettere di Sigismondo Boldoni scrittore riputatissimo ai suoi tempi, e che forse avrebbe acquistato un nome più esteso e più autorevole anche presso ai posteri se non fosse morto all'uscire della giovinezza, e sopra tutto se quei pochi anni gli avesse vissuti in un secolo, in cui fosse stato possibile concepire nuove idee d'una precisione e d'una importanza perpetua, e per esporle, trovare quello stile che vive. Questi sulle prime non aveva voluto fuggire, e parte cercando di avere ad alloggio ufiziali, parte chiamando soccorso di soldati italiani ivi stanziati era venuto a capo di preservare la sua casa, e di difenderla poi quando fu minacciata: e racconta agli amici i suoi pericoli, e gli altrui disastri. V'è pure in una di quelle sue lettere un tratto singolare che merita d'esser ricordato. Il tenente del colonnello Merode, il cui reggimento era venuto pel primo, entrato nel giardino di Sigismondo, accennò un boschetto, e domandò che razza di piante fossero quelle, e che frutto portassero. – Ahi barbaro! – pensò il Boldoni: – non conosce l'alloro, – e conchiuse fra sè che da tal gente non era da sperarsi misericordia. Desolato quel territorio, le feroci locuste si gettarono nella Valsassina. È un gruppo di montagne e di valli, paese poco visitato dal sole, intersecato da torrenti, petroso e selvatico negli accessi, ma per entro rivestito in gran parte di ricchi pascoli, e più fertile che non l'annunzi il suo nome: ha varie terre, quale sul pendio, quale nel fondo a luogo a luogo assai vasto perchè si possa chiamarlo pianura: e sur alcuni monti più erbosi sono sparse bianche e picciole casette, che da lontano raffigurano quasi un gregge sbandato al pascolo. Non vi mancavano possessori agiati, ma la più parte degli abitanti erano e sono tuttavia mandriani i quali vi dimorano nelle stagioni più miti, e passano al piano i mesi più rigidi. La fama spaventosa della sorte di Bellano precedeva le truppe, e i valligiani s'erano presso che tutti rifuggiti sulle somme alture lasciando deposte sotterra presso le case le loro ricchezze, e cacciando dinanzi a sè le mandrie che sono la principale. Ma i saccheggiatori, ai quali non bastava quello che era stato loro abbandonato e a cui le arti di preservazione degli abitanti avevano suggerite nuove arti di offesa e di depredazione, si diedero a rintracciarli. Quelli che erano stati più lenti a fuggire, o che furono sorpresi nei loro nascondigli, strascinati giù pei greppi a minacce, a percosse, ricondotti nei villaggi, erano quivi sottoposti alle torture, che può inventare la cupidigia più crudele, perchè rivelassero i tesori nascosti. Due passioni ben diverse, ma egualmente potenti, l'avidità e il terrore supplivano alle convenzioni del linguaggio, e si spiegavano fra di loro in un rapido e terribile dialogo. I gemiti, le voci supplichevoli, le mani giunte al petto, o stese al cielo non impetravano che nuovi strazj: l'infelice che si prostrava ad abbracciare le ginocchia dei suoi oppressori, era rialzato a forza di percosse. Colui che aveva riposto sotterra o danaro o suppellettile, o a cui il vicino per far pompa di previdenza e di sicurezza nei suoi ripieghi aveva confidato il luogo del suo deposito, si stimava felice di avere con che acchetare quella perversità; accennava premurosamente, con aria di sommessa e quasi amichevole intelligenza ai soldati che lo seguissero, e mostrava loro la terra di recente smossa, o l'armadio murato di fresco; e cercava di sguizzare fra mezzo i saccheggiatori che ciechi per ingordigia si gettavano a gara sulla preda. Dalla Valsassina il temporale discese nel territorio di Lecco. cap. 2 Le contingenze infelici della vita umana son tante, che non di rado l'uomo oppresso da una sventura, può consolarsi col pensiero d'altro male o di peggio, che senza quella sventura gli sarebbe capitato infallibilmente. Se la infame passione di Don Rodrigo non fosse venuta a turbare i placidi destini di Fermo e di Lucia, essi dopo d'aver passato un anno d'inopia, contra la quale chi sa se le loro facoltà avrebbero bastato, si sarebbero ora trovati, probabilmente con un bambinello, esposti nel loro paese a quella orrenda furia militare, costretti a fuggire; e quando avessero schivati tutti i pericoli della persona, tornando poi a casa non v'avrebbero trovate che le muraglie e quelle mezzo diroccate, e i segni perversi e luridi del sozzo torrente che v'era passato. Questi guaj sembrano ora leggieri al paragone di ciò che Lucia e Fermo hanno sofferto in quella vece; ma allora non v'essendo il paragone, e non potendo essi nemmen per sogno immaginare come possibili tutte le traversie che abbiamo narrate, quel minor male sarebbe ad essi paruto il colmo della infelicità. Comunque sia, in mezzo a tanti mali fu una ventura per entrambi l'esser lontani da casa loro in quel brutto momento. E Agnese? Agnese si trovava mò proprio nell'intrigo. «Vengono; hanno saccheggiata Cortenova, hanno dato il fuoco a Primaluna, disertato Introbbio, Pasturo, Barzio, si sono veduti a Ballabio, son qui, son qui;» così la fama andava di momento in momento crescendo e avvicinando il terrore. Alcuni di quei poveri valligiani, che invece di rintanarsi sui monti dove forse non sarebbero stati sicuri, avevano stimata miglior via di fuga, precorrere il nemico, giungevano ansanti, spaventati, in disordine, come reliquie d'un esercito disfatto e inseguito, e raccontavano cose orribili della crudeltà dei soldati, principalmente contra coloro che fossero o paressero opulenti. Agnese aveva ancora una ventina di quegli scudi d'oro che il Conte del Sagrato le aveva donati così a proposito, e quasi per ispirito di profezia. Che in quell'anno, senza quell'ajuto di costa, la poveretta sarebbe stata ridotta a morire di stento, o a pitoccare disperatamente come tanti altri. Ma dopo d'aver sentiti i vantaggi della ricchezza, Agnese ne provava ora tutte le cure e i terrori. È ben vero ch'ella aveva sempre dissimulata prudentemente quella ricchezza, e il solo che fosse del segreto era Don Abbondio che era stato testimonio del dono, e al quale essa ricorreva per fargli di tempo in tempo cambiare uno scudo in picciola moneta. Ma una indiscrezione poteva avere tradito il segreto, o un sospetto averlo indovinato, e allora il pericolo sarebbe stato terribile, e la fuga mal sicura. Poichè era cosa nota che nei luoghi dove la soldatesca era già passata, uomini, ai quali in verità non si saprebbe trovare un epiteto, o per invidia, o per isperanza di premio avevano guidati quei masnadieri al nascondiglio di qualche lor paesano denaroso, segnandolo così allo spoglio, ed ai tormenti. Per queste ragioni Agnese fluttuava in un dubbio tempestoso: più volte, vedendo passare qualche frotta de' suoi paesani che tiravano verso i monti, s'era mossa per mettersi in loro compagnia; e poi ristava, pensando con raccapriccio ai pericoli che l'asilo stesso poteva avere per lei. Ma dove trovare quello che le desse la sicurezza particolare di ch'ella aveva bisogno? Maneggiando e rimaneggiando quegli scudi d'oro, svolgendoli, e rincartocciandoli, togliendoli di seno per riporveli meglio, le sovvenne di colui che glieli aveva dati, delle sue proferte, del suo castello posto al confine e in alto come il nido dell'aquila; e si fermò tosto nel pensiero di cercarsi l'asilo colà. Aveva già sotterrate, nascoste sul solajo, riposte alla meglio le masserizie più grosse; sbarrò come potè le finestre; tolse un fardello dove aveva ragunato ciò che le sue forze bastavano a portare; ravvolse per l'ultima volta quegli scudi d'oro, e li cacciò sotto il busto, tra la camicia e la pelle, uscì di casa, chiuse la porta, più per non trascurare una formalità che per fiducia che avesse in quei gangheri e in quelle imposte, si mise la chiave in tasca, e s'avviò. Trovandosi così soletta in istrada pensò quanto le sarebbe stato prezioso un compagno in quel

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