Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 131

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tragitto. Ma voleva esser galantuomo, galantuomo a tutte prove, superiore ad ogni sospetto e più forte d'ogni tentazione. – Dove trovarlo anche questo? Il curato? Perchè no? la casa parrocchiale è a pochi passi; tentiamo. – Chi non ha veduto Don Abbondio in quel giorno non ha una idea vera dell'impaccio. I nemici che si avvicinavano erano i più terribili che egli avesse mai avuti a fronte, e quelli contra cui erano più inutili tutte le sue armi, tutti i suoi stratagemmi. Non era gente da ammansarsi colla pieghevolezza, e colla sommessione, molto meno da contenersi coll'autorità. Non v'era salute che nella fuga; ma primo di tutti a risolverla Don Abbondio era poi rimasto indietro di molti per le difficoltà che trovava nella fuga stessa, e per le condizioni ch'egli vi aveva voluto porre. L'ertezza del cammino lo spaventava, e questo spavento gli aveva fatto perder qualche tempo a voler persuadere or l'uno or l'altro dei suoi parrocchiani che lo portassero in lettiga; ma in verità quello non era momento da trovar lettighieri. Era pure andato pregando tutti quelli che avevano buone spalle, che per amore del loro curato si caricassero delle sue masserizie, delle sue provvigioni, anche dei suoi mobili, per portarli in alto e riporli in salvo; ma si era indirizzato ad uomini occupati a scegliere fra i pochi loro averi quello che si poteva trafugare, lasciando con dolore il resto alle voglie dei ladri: e nessuno aveva spalle da allogare a Don Abbondio. Pensava finalmente a nascondere il tutto sul luogo, ma la cosa era per sè difficile, e il tempo stringeva. Di più non aveva ancora saputo scegliere un asilo, e senza farne mostra, era tormentato dallo stesso timore che Agnese. Girava il pover uomo per la casa tutto affannato e stralunato, non sapendo che farsi, se la prendeva quando col duca di Nivers, come diceva egli, che avrebbe potuto rimanersi in Francia e voleva a forza esser duca di Mantova, quando col duca di Savoja che voleva ingrandirsi, quando coll'imperatore che stava su certi puntigli, e quando con Don Gonzalo di Cordova che non aveva saputo mandare quei diavoli per un'altra strada. Bestemmiava ancor più la durezza dei suoi parrocchiani che non volevano dargli ajuto. – Oh che gente! –, sclamava – che gente! ognuno pensa a sè! non c'è carità! – Si faceva alla finestra, e chiamava quelli che passavano con una certa voce mezzo piagnolente, e mezzo rimbrottevole. «Venite a dare una mano al vostro curato, se avete viscere di misericordia; non siate così cani. Ajutatemi a portar via quei pochi stracci, quei pochi stracci» ripeteva, perchè nessuno sospettasse ch'egli avesse cose preziose da salvare. «Aspettatemi, che venga anch'io con voi; aspettate almeno che siate quindici o venti, tanto da potermi guardare, ch'io non sia abbandonato. Volete voi lasciarmi solo in man dei cani? Meritereste che il vostro parroco fosse spogliato, ammazzato. Misericordia! Fermatevi dunque.» – Eh! tiran di lungo. Oh che gente! – Bisogna dire che Don Abbondio fosse ben accecato dalla paura per parlare a quel modo. Quegli a cui egli faceva quelle preghiere e quei rimproveri, passavano dinanzi alla sua casa curvi sotto il peso delle robe loro, quale trascinandosi dietro la sua vaccherella, quale traendosi dietro i figli che a stento lo seguivano, e la donna che portava quegli che non potevano camminare, quale reggendo un vecchio o un infermo. Altri tornavano scarichi dal monte a raccogliere altre masserizie, finchè reggessero le forze, e lo permettesse il pericolo. Alcuni di loro non rispondevano a Don Abbondio, altri diceva: «eh sì! s'ingegni anch'ella signor curato». – Oh povero me! oh che gente! – ripeteva egli. – Ognuno pensa a sè: ognuno pensa a sè; e a me nessuno vuol pensare. – Per buona sorte Perpetua aveva conservato assai più sangue freddo, e operava e dava consigli, come Catterina prima aveva fatto nel campo alle rive del Pruth quando Pietro stretto tra i Turchi e i Tartari, non trovando uscita nè consiglio, era caduto d'animo, non sapeva a che partito appigliarsi, e non aveva più energia che per isfogarsi in querele e in rimproveri. Perpetua ben convinta che non era da fare assegnamento sopra altri, aveva fatto due fardelli uno per sè, uno per Don Abbondio; e poi in fretta e in furia, sparpagliava il resto delle masserizie nei bugigatti più nascosti della casa, sul solajo sotto il pagliajo, dietro i tini. Quando questa faccenda fosse terminata alla meglio, ella aveva proposto di presentare a Don Abbondio il fardelletto destinato per lui, e d'intimargli di partire, giacchè in quel momento era cosa evidente che il padrone non era in caso di governarsi e pel suo meglio bisognava comandargli. È però vero che Perpetua aveva creduto di riconoscere una simile necessità in mille altri casi, che a gran pezza non erano urgenti come il presente. In questo frattempo sopravvenne Agnese, e comunicata la sua risoluzione, fece intendere a Don Abbondio ch'ella poteva essere opportuna anche per lui. «Dite davvero, Agnese?» disse Don Abbondio. «È un buon parere, signor padrone,» disse Perpetua: «andiamo senza perder tempo.» «Senza perder tempo,» disse Don Abbondio, «perchè costoro possono giungere da un momento all'altro. Ma saremo sicuri in casa di quel signore? Eh!» «Andiamo,» disse Perpetua, «sicuri come in chiesa: gli parlerò io: siamo amici: è stato nella mia cucina quieto come un agnello: è diventato un uomo del Signore.» «Male non me ne vorrà fare: che dite eh? sarebbe un peccato senza costrutto: quelle poche volte che ho dovuto trovarmi con lui, sono sempre stato così compito! Andiamo, ma la mia povera roba!» «Anch'io ho dovuto lasciar quasi tutto il poco fatto mio, che sono una povera vedova,» disse Agnese. «Sia fatta la volontà di Dio,» disse Don Abbondio: e intanto Perpetua gli diede il fardello, dicendo: «porti questo, ch'io porto quest'altro.» «Oh poveretto me!» disse Don Abbondio. «Che ci avete messo?» «Camicie e abiti,» rispose Perpetua, indi fattasi all'orecchio di Don Abbondio, domandò sotto voce: «i danari li ha in tasca?» «Sì, zitto zitto per amor del cielo,» rispose Don Abbondio, e prese il fardello. «Sentite Perpetua,» riprese poi tosto al momento di partire: «tirate fuori qualche altro abito che Agnese farà questo servizio al suo curato di portarlo.» «Ma non vede, che ho preso con me tutto quello di mio che poteva portare?» disse Agnese. «Oh me poveretto!» mormorò Don Abbondio, «ognuno pensa a sè. Andiamo, andiamo. Perpetua chiudete bene la porta: alla custodia di Dio. Aspettate... ma no no, peggio: sono la metà Luterani! misericordia!» Don Abbondio rispondeva così ad una proposizione che s'era fatta e che alla prima gli era paruta un bel trovato per preservare la casa. Voleva staccare dalla chiesa il quadro del Santo protettore, e affiggerlo al di fuori su la porta, per indicare che la casa era sacra, e per fare in modo che non potesse essere intaccata che per mezzo d'una profanazione: ma s'avvide tosto che quel mezzo di difesa, molto debole per sè contra soldati avidi di rapina, poteva in questo caso divenire una provocazione a far peggio: giacchè fra quei soldati v'era di molti ai quali uno sberleffo fatto coll'alabarda all'immagine d'un Santo sarebbe sembrato un'opera meritoria, una espiazione anticipata del saccheggio. Data una occhiata lacrimosa alla casa, Don Abbondio s'incamminò colle due vecchie amazoni, e per tutta la via non fece altro che sospirare, lagnarsi dell'abbandono in cui l'avevano lasciato i suoi parrocchiani, domandare a Perpetua dove avesse riposta la tal cosa e la tal altra, e se credeva che non le avrebbero trovate: enumerare tutte le ragioni per le quali il Conte sarebbe stato peggiore d'un cane se gli avesse fatto male, e divisare dove si sarebbe potuto cercare un asilo se quello a cui si andava fosse stato mal sicuro. Giunti presso al castello videro un gran movimento, gente che andava, gente che veniva, uomini in

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