Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni pagina 4

Testo di pubblico dominio

non accadono mai brutti incontri. S'immagini ora il lettore che colpo doveva essere stato questo per Don Abbondio. L'impressione di spavento per quei visi e per quelle minacce, l'idea d'un pericolo associata a ogni momento dell'avvenire, il frutto di tanti anni di studio e di politica perduto in un giorno, l'unica teoria sulla quale era fondata tutta la sua speranza di quieto vivere, rovinata, e un passo stretto, pericoloso da attraversare, un passo del quale non si vedeva una uscita. Poichè se si avesse potuto mandare in pace Fermo con un bel no, l'affare sarebbe stato finito, essendo la coscienza di Don Abbondio bastantemente soddisfatta della idea che a lui era stata fatta violenza. Ma Fermo vorrà delle ragioni, e non istarà quieto, e la ragione buona non si poteva dire a tutto il mondo, troverà strano questo ritardo, e molto più una ripulsa, mormorerà, e che cosa rispondere? E se Fermo ricorre? Angustiato da questi pensieri il nostro Curato per sollevarsi un poco si scatenava in suo cuore contro chi era venuto a togliergli per sempre la sua pace. Egli non conosceva Don Rodrigo che di nome, e di vista, e non aveva avuta altra relazione con lui che di fargli una grande scappellata quando lo incontrava e di riceverne un mezzo saluto di protezione. Gli era occorso talvolta di difenderlo, quando si parlasse di qualche soperchieria da lui fatta, e aveva detto forse cento volte che Don Rodrigo era un degno cavaliere. Ma ora gli diede in suo cuore tutti i titoli contro i quali l'aveva difeso in altre occasioni. Ma l'ira sua maggiore era forse contro quei due sposi che in fondo erano la prima cagione di una tanta sua angustia. Ragazzi, – andava ripetendo – ragazzi, non pensano che a maritarsi e non si fanno carico dei fastidj in cui pongono un galantuomo. – Colla compagnia di questi pensieri giunse a casa, chiuse diligentemente la porta e andò a gettarsi su un seggiolone nel suo salotto, dove la sua serva Vittoria stava parecchiando la tavola per la solita cena. Poche cose a questo mondo sono più difficili a nascondersi di quello che sieno i pensieri sul volto d'un curato agli occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di Don Abbondio erano così vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in tutta la persona che per distinguerli non vi sarebbero bisognati gli occhi della vecchia Vittoria. «Ma che cosa ha, Signor padrone?» «Niente niente.» Questa risposta di formalità, Vittoria se la doveva aspettare, e non la contò per una risposta, e proseguì. «Come, niente? Signor padrone: ella ha avuto uno spavento: vuol darmi ad intendere? ...» «Quando dico niente,» ripigliò Don Abbondio con impazienza, «o è niente, o è cosa che non posso dire.» Vittoria, vedendolo più presso alla confessione che non avrebbe sperato in due botte e risposte, andò sempre più incalzando. «Che non può dire nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della sua salute? Chi rimedierà? ...» «Tacete, tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò». Quando Vittoria intese questo fu certa che v'era una cosa da sapersi e che la cosa era grave, e giurò a se stessa di non lasciare andare a dormire il Curato senza averla saputa. «Ma, signor padrone, per l'amor di Dio mi dica che cosa ha: vuol ella ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?» «Sì sì, da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in sospetto.» «Ma io non dirò niente se ella mi toglie da questa inquietudine.» «Non direte niente come quando siete corsa a ripetere alla serva del curato nostro vicino tutti i miei lamenti contro il suo padrone, e m'avete messo nel caso di domandargli scusa, come quando...» Vittoria sarebbe qui montata sulle furie se non avesse avuto un secreto da scavare, e se non avesse pensato che nulla allontana da questo intento come il piatire sopra cose estranee. Interruppe dunque Don Abbondio, ma in aria sommessa: «Oh per amor del cielo, che va ella mai rimescolando: sono stata ben castigata, non aveva creduto far male, e dopo d'allora guarda che mi sia uscita una parola. Signor padrone, se io parlo...» «Via, via, non giurate». «Ma vorrei poterla soccorrere, chi sa che io non abbia un povero parere da darle. Io l'ho sempre servita di cuore e con attenzione, ma ella sa,» e qui fece voce da piangere, «ella sa che i misterj non li posso soffrire. Una serva fedele ha da sapere...» In fondo il curato aveva voglia di scaricare il peso del suo cuore, onde fattigli ripetere seriamente i più grandi giuramenti le narrò il miserabile caso, mentre la buona Vittoria, tra la gioja del trionfo, e l'inquietudine del fatto che non poteva esser lieto, spalancò gli orecchi e ristette colla posata alzata nel pugno che tenne puntato sulla tavola. «Misericordia!» sclamò Vittoria: «oh gente senza timor di Dio, oh prepotenti, oh superbi, oh calpestatori dei poverelli, oh tizzoni d'inferno!» «Zitto zitto, a che serve tutto questo?» «Ma come farà Signor padrone?» «Oh! vedete,» disse il curato in collera, «i bei pareri che mi dà costei? Viene a domandarmi come farò, come farò, come se fosse ella nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela.» «Sa il cielo se me ne spiace, Signor padrone, ma bisogna pensarci.» «Sicuro, e nell'imbroglio son io.» «Pur troppo,» disse Vittoria, «ma non si lasci spaventare: eh! se costoro potessero aver fatti come parole, il mondo sarebbe loro: Dio lascia fare ma non strafare: e qualche volta cane che abbaja non morde.» «Lo conoscete voi questo cane? e sapete quante volte ha morso?...» «Lo conosco e so bene che...» «Zitto, zitto, questo non serve.» «Signor padrone, ella ci penserà questa notte, ma intanto non cominci a rovinarsi la salute per questo: mangi un boccone.» «Ma se non ho voglia.» «Ma se le farà bene,» e detto questo, si avvicinò al seggiolone dov'era il curato e lo mosse alquanto come per dargli la leva: il curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino alla tavola: il curato vi si ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo di tempo in tempo qualche esclamazione, come: – Una bagattella! ad un galantuomo par mio: – ed altre simili, se ne andò a letto colla intenzione di consultare tranquillamente, e ordinatamente sui casi suoi. cap. 2
Fermo La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L'egoismo, la debolezza, e la paura vi si trovavano come in casa loro, l'astuzia doveva quindi essere invitata, e ricevere L'incarico di proporre il partito, e così fu. Senza annojare il lettore colla relazione di tutte le fluttuazioni, dei ripieghi accettati e rigettati, basterà il dire che il partito di fare quello che si doveva senza darsi per inteso della minaccia non fu nemmeno discusso, che si pensò a quello di assentarsi, tanto da aspettare qualche beneficio dal tempo, ma questo anche fu rigettato perchè non v'era spazio per eseguirlo. La celebrazione del matrimonio era stabilita pel giorno vegnente, e una partenza di buon mattino, senza lasciare nessuna disposizione avrebbe avuto tutto il colore d'una fuga, ed esponeva a molti impicci, e rendiconti. Fu però riservato questo ripiego per l'ultimo, cercando intanto di guadagnar tempo e di agire sulla parte più debole. Don Abbondio si preparò a questo esperimento; passò in rassegna tutti i mezzi di superiorità e d'influenza che l'autorità, la scienza, (in paragone di Fermo), e la pratica gli davano sopra quel povero giovane, e pensò al modo di farli giuocare. Questi bei trovati di Don Abbondio appariranno più chiaramente nel discorso ch'egli ebbe con Fermo. Fermo non si fece aspettare, e appena appena gli parve ora da potersi presentare al Curato senza indiscrezione, vi andò colla lieta impazienza di un giovane che in quel giorno deve sposare quella ch'egli ama. Era Fermo un tessitore di seta, sorta d'industria che da una grande attività era allora in decadenza, ma non però al segno che l'operajo abile non potesse onestamente vivere del suo lavoro. L'emigrazione di molti lavoranti suppliva

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Argomenti: pace fermo,    grande scappellata,    mezzo saluto,    due botte,    serva fedele

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