Il ponte del Paradiso di Anton Giulio Barrili pagina 38

Testo di pubblico dominio

anche per l'amicizia, che ho sempre creduta una grazia del cielo. Ma tu, l'amico del cuore, ricusi i miei doni. La vergogna.... il capriccio.... il puntiglio!... Io avrò fatto male a correr le poste, già te l'ho detto; ma posso aggiungerti che non le ho corse davvero, se non quando mi hai dato il tuo sì, che oggi ti vorresti riprendere. Pensaci! Come è vero Dio, ti accerto che domattina non andrò alla stazione per incontrare il signor Cantelli, se non potrò portare con me il tuo consenso. Ciò che in quella vece avrò fatto, saprai. Tu mi disonori in faccia a quell'uomo; non sopravviverò a questo colpo. — Filippo Aldini era allo stremo delle sue forze: il suo cuore si contorceva nello spasimo di un'aspra tortura morale. Fremeva al pensiero del rischio in cui la sua ostinazione precipitava l'amico; e la imagine di Medusa gli si affacciava lumeggiata di sinistri bagliori, nell'ombra. — Perdonami. Raimondo; — annaspò; — non ti esageri ora il pericolo? — No; — rispose netto quell'altro. — La lettera di Anselmo ti mostra che cosa pensi egli di me. Quando un uomo è collocato tant'alto nella stima altrui, egli è come la statua rizzata sul suo piedistallo; se casca non c'è rimedio, va in pezzi. Aggiungi che quando io fossi perduto nella stima di Anselmo, ogni relazione d'amicizia e d'affari sarebbe rotta tra noi. Tutto ciò farebbe scandalo tanto più grave, in quanto che, non essendo conosciute le cagioni della rottura, il mondo ne imaginerebbe a sua posta. Vedi a che punti mi condurrai col tuo no. Ma io prego ancora? — gridò Raimondo, inalberandosi tutto ad un tratto. — Dopo ciò ch'io t'ho detto delle mie risoluzioni, sarebbe una viltà continuare. Pensaci! Tu non hai avuto ragioni da oppormi, ed hai sentite le mie. Pensaci! Aspetterò la tua risposta prima di notte. Per darmela meditata e seria, come ho il diritto di esigerla, poichè il cuore non te l'ha subito dettata, devi restar solo colla tua coscienza. Va! — Raimondo! — gridò Filippo non voce lagrimosa. — Raimondo! Se tu mi leggessi nell'anima!... — Te l'ho detto, aspetto la tua risposta. Leggerò quella; non più parole inutili; va! — Si era alzato, così dicendo. Anche l'Aldini si levò in piedi e si mosse per uscire, con un gesto d'addio disperato; veramente disperato, come il caso in cui lo aveva messo il suo triste destino. Rimasto solo nelle stanze, Raimondo si studiò anzitutto di ricomporre il viso ad un'apparenza di tranquillità. Con uno sforzo violento venne a capo di padroneggiarsi, tanto da poter finire di minutare la lettera rimasta interrotta; poi chiamò il signor Brizzi, per dargli le opportune istruzioni. Finalmente uscito dal banco, andò attorno passeggiando senza saper dove e perchè, ma rinfrancandosi a grado a grado nell'aria pungente della sera, e portò a casa il resto del suo turbamento, quel resto che non poteva sfuggire all'occhio indagatore di Livia. Lì per lì, come s'è visto, Raimondo aveva dovuto scodellare quella bugia delle ventimila lire in pericolo; la prima che gli era venuta alla mente, e la più facile ad un uomo d'affari, ma non lavorata abbastanza, non aggraziata nè condotta a pulimento, per la fretta che aveva di trovar qualche cosa. Forte di quella bugia, era rimasto aggrondato, per tutto il tempo del pranzo, ed anche più tardi in salotto, mentre la signora fingeva d'esser tutta intenta nel suo ricamo turco (un ricamo che voleva durare quanto la tela di Penelope), ed egli di essere sprofondato nella lettura dei suoi giornali. Ed ella di tanto in tanto, col pretesto d'infilar l'ago, mandava una rapida occhiata al marito; ed egli, a più lunghi intervalli, come se si destasse ad un tratto da una specie di letargo, attaccava qualche discorso vano, che tosto lasciava cadere. Serata uggiosa per tutt'e due! Frattanto egli non dava indizio di volersi spiccare da casa, per andare a far quattro passi. Erano già suonate le nove all'orologio dell'anticamera, quando si udì una scampanellata. Visite? Per quella sera non ne aspettavano. Poco dopo entrava in salotto il fido Giovanni, portando un vassoio d'argento, e sul vassoio una lettera. — Per lei, signor padrone; — diss'egli, accostandosi al signor Raimondo. Prese questi la lettera con un gesto convulso, che alla signora Livia potè sembrare impaziente. Ella intanto sbirciava il messaggio, che Raimondo aveva dovuto recare più presso alla tavola, sotto il vivo lume della lampada elettrica ond'era rischiarato il salotto; e tosto riconosceva il tipo delle buste del banco maritale, insieme colla mano di scritto del signor Brizzi, gran maestro in calligrafia commerciale. Anche questi particolari aveva notati Raimondo, e alla sollecitudine con cui aveva afferrata la lettera era succeduto un senso di delusione e di noia. Nondimeno, aperse la busta, ne estrasse il foglio, e lo spiegò. C'erano pochi versi di scritto, e lo sguardo di Raimondo li abbracciò tutti in un colpo; egli ripiegò quindi il foglio, lo rimise nella busta, e cacciò tosto il messaggio nella tasca interna del suo soprabito. Ma un gran mutamento si era fatto in lui: sparite le gronde, la fronte rasserenata, l'occhio tornava a brillare della solita luce, e le labbra, non più strette come dianzi, s'ammorbidivano ad una espressione di gran contentezza. Tutto ciò non era sfuggito allo sguardo di Livia. La bella signora aveva molte ragioni, quel giorno, per essere in singolar modo curiosa. Passati appena pochi secondi, quanti ne bastavano a capire che Raimondo non avrebbe aperto bocca egli stesso per darle ragguagli, placidamente, senza levar gli occhi dal suo ricamo, gli disse: — Buone notizie? — Eccellenti; — rispose Raimondo. — Il rischio che correvi di perdere?... — Sfumato. Lo dicevo ben io a me stesso! Come ti si può cangiare così, di punto in bianco, diventare tutt'altro, l'uomo che hai sempre stimato, vedendo in lui la perla degli uomini? Ecco intanto come vanno le cose di questo mondaccio; — soggiunse Raimondo, chetando un pochino quella sua foga soverchia; — è bastata la voce di un maligno, per far credere che un galantuomo chiamato a Padova da un negozio urgente, rimasto colà un giorno più del previsto, fosse dato per un fuggiasco, che volesse sottrarsi ai suoi impegni d'onore. È tornato, il brav'uomo; è capitato al banco, dopo che io n'ero uscito, ed ha soddisfatto il suo debito. — Le spiegazioni verbali erano belle e buone; ma la signora Livia avrebbe preferito leggere senz'altro la lettera. Disgraziatamente Raimondo teneva gli affari e le lettere d'affari per sè; ed era un gran fatto che per una volta tanto si fosse lasciato cavar di bocca quel poco. Uscito di pena, Raimondo lesse meglio i giornali, anzi diciamo che incominciò a leggerli soltanto allora; ed anche, secondo l'uso, lesse e commentò la cronaca cittadina a sua moglie. La quale, frattanto, pensava che suo marito, anche avendo perduto o corso rischio di perder somme più forti, non era mai stato tanto accorato come quel giorno, tra le sei e le nove di sera. — Va, caro; tu non me la dici giusta; — pensava ella in cuor suo. Quella sera egli si ritirò nelle sue stanze un po' prima del solito. E al servitore che lo accompagnava col lume, parlò facetamente così: — Paron Nane, domattina vorrei il caffè alle sette. E svegliatemi, s'intende; che non vorrei beverlo freddo. — Era strano, quell'ordine di svegliarlo alle sette. Nell'inverno, di solito, si faceva portare il caffè alle otto, e magari alle otto e mezzo. Inoltre non diceva “paron Nane„ al suo vecchio servitore, se non quando era allegrissimo. Che proprio tutto quel buon umore venisse da una lettera d'affari? e niente, il cattivo delle ore innanzi, da un discorso che aveva dovuto fargli Filippo Aldini, quel medesimo giorno? XIII. Triste risveglio. Ma aveva poi parlato Filippo Aldini? Bene lo aveva promesso a lei, sulla sua fede di gentiluomo; ed ella doveva crederlo risoluto, come le era apparso sincero. Quella fiducia si era

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Argomenti: sforzo violento,    vivo lume,    scandalo tanto,    ricamo turco

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