Il ponte del Paradiso di Anton Giulio Barrili pagina 50

Testo di pubblico dominio

colmando un intervallo che Filippo aveva posto nella sua dolorosa esposizione di fatti. — Le occasioni fanno il ladro. Certe care donnine son poi così matte!... E chi sa? più assottigliano il cervello, più hanno i nervi teneri. Se mettiamo poi in loro presenza un giovinotto come Lei!... — Sì, tutto questo era buono e bello, ma non attenuava punto la triste condizione di Filippo Aldini. Seguiva infatti il guaio peggiore; e Filippo Aldini passò a raccontarlo. Bene aveva egli spezzata quella catena di errori, non dubitando di apparire nell'ansia continua delle esortazioni e delle preghiere un codardo. Ed oramai confidava di aver ridotta quella donna alla sua medesima fede; non la vedeva più altrimenti che in conversazioni, a teatri, in visite cerimoniose; a farla breve, nelle sole occasioni in cui ogni mancamento alle consuetudini antiche avrebbe piuttosto nociuto che giovato, dando argomento ad osservazioni maligne, suscitando ingiuriosi sospetti. Quella donna, se non al tutto persuasa; gli pareva convinta, rassegnata, tranquilla. Perchè da ultimo aveva dato in ismanie? Orgoglio ferito, certamente, non fiamma rinnovata d'amore: ed era stato un colpo di follìa, quell'amore; spento dalla ragione, non avrebbe dovuto più divampare. Non egli, poi, colpito dalla bellezza, dalla grazia, dalla virtù d'una cara fanciulla, d'una creatura divina, aveva osato vagheggiare il pensiero di farla sua: era stato Raimondo, a formarne il disegno, imaginando senza dubbio, nel favorire l'amico, d'infondergli il coraggio che a lui sarebbe per troppe ragioni mancato. Per verità, egli amava Margherita con tutte le forze dell'anima, e ciò che ardeva nell'anima sua gli traspariva sicuramente dagli occhi. Di dar moglie al suo giovine amico, Raimondo Zuliani aveva parlato in presenza della sua Livia; ed ella aveva sorriso, assentito, perfino aggiunte le sue esortazioni a quelle del marito. Poteva egli, Filippo Aldini, nel lasciare che Raimondo Zuliani parlasse per lui, povero innamorato, ai signori Cantelli, prevedere lo scoppio di una nuova follìa che doveva esser cagione di tante rovine? — Rovine! e quali? — pensò il signor Anselmo mentre aguzzava l'orecchio. Certo, seguitava Filippo, in tutta quella faccenda gelosa, egli non era stato senz'arte: si era destreggiato in modo da non esser tirato mai a discorrere del suo matrimonio possibile. Ma questa era arte legittima, ed anche necessaria. Di certe cose, che sono il dolce futuro, si parla male, in presenza di certe persone, che rappresentano l'amaro passato; e sono delicatissime, le dolci cose sperate, e non è prudenza ragionarne, se non quando siano avviate per modo di non correr più il pericolo di andare in dileguo. Del resto, se era Raimondo quegli che aveva tutto ideato e tutto imbastito, se egli ne aveva parlato e molto probabilmente seguitava a parlarne con sua moglie, se ella appunto in quei giorni era tutta tenerezza col marito, poteva egli prevedere quella repentina tempesta di collere, incominciata con un velenoso discorso alle signore Cantelli; continuata con un assalto diritto a lui, chiamato cacciatore di doti, e costretto a mendicar pretesti per rinunciare alla propria felicità; giunta finalmente al suo colmo spaventoso, quella stessa mattina, colla consegna di un antico carteggio al marito? — Grave! grave! — borbottava il signor Anselmo, che oramai vedeva sopraggiungere il dramma. E il dramma, il dramma, bisognava raccontargli. A frasi rotte, ma non dimenticando nulla, neanche l'improvvisa e folle apparizione di quella donna là dentro, dov'essi erano seduti in quel punto, e dove indi a poco doveva irrompere il furente marito, Filippo Aldini raccontò. Sopraffatto dall'ira, il signor Zuliani non era stato altrimenti acciecato; le sue mani vendicatrici non si erano aggravate su quella disgraziata. Bensì a lui si era rivolto, a Filippo Aldini, per chieder conto dell'onor suo oltraggiato e dell'amicizia tradita. Lì, per l'appunto, dov'essi stavano, e mentre la donna, esortata dall'Aldini a fuggire per quell'uscio segreto, pur rimaneva inavvertita in ascolto, Raimondo aveva voluto stabilire le condizioni d'un duello mortale, inesorabilmente mortale. Due nomi scritti, e la sorte decidesse quale dei due, in un termine inviolabile di tempo, doveva uccidersi, sparire, poichè uno dei due era di troppo sulla faccia del mondo. Così voleva Raimondo; forma e condizioni del duello erano in sua balìa, essendo egli l'offeso; e l'Aldini aveva dovuto giurare di star fermo ai patti. La sorte era stata contraria a Raimondo, il quale, del resto, a temperargli il nuovo rimorso, affermava che in nessun modo, anche vincitore nel giuoco della sorte, avrebbe voluto sopravvivere alla perdita della sua felicità, alla morte delle sue illusioni. Ed egli, l'Aldini, aveva dovuto inchinarsi; più ancora, fatto schiavo di quell'uomo per forza di cose, per rispetto ad una sventura ond'egli era stato in tanta parte cagione, aveva dovuto sottomettersi ad un'altra volontà di Raimondo. Questi, la cui parola era impegnata con Anselmo Cantelli, aveva già fatto del matrimonio tra l'Aldini e Margherita una questione d'onore; voleva adunque che il matrimonio seguisse; quanto a sè, fatte le nozze, avrebbe provveduto, secondo il decreto della sorte, e secondo l'istesso disgusto, invincibile omai, della vita. Ma questa volontà di Raimondo metteva l'Aldini in una condizione assai triste. Doveva egli tacere? Era una viltà, e la sua coscienza gli avrebbe sempre rimproverato quel tradimento alla buona fede dei signori Cantelli, che sulla testimonianza di Raimondo Zuliani lo avevano per un gentiluomo senza macchia. Doveva egli parlare? Era una slealtà, poichè con questo egli tradiva i segreti di casa Zuliani, quei segreti dolorosi che la magnanimità di Raimondo aveva voluto coprire del velo più fitto, abbracciando il partito d'un duello alla sorte. Ma se il parlare fosse stato ristretto in certi confini di prudenza, e nella misura della necessità, ristretto sopratutto all'unica persona che aveva poi il diritto di sapere ogni cosa, perchè d'ogni cosa era liberale a lui, come avrebb'egli meritata la taccia di sleale? La coscienza gli diceva che nel discreto orecchio di Anselmo Cantelli egli poteva deporre il suo segreto e l'altrui. Senza dubbio, tra due mali era da sceglier sempre il minore; e il minore consisteva per l'appunto nel non commettere una viltà così grande, come sarebbe stato il tacere. Un cacciatore di doti, certificato ed autenticato un portento di delicatezza, poteva tacere e lasciar correre: un uomo onesto davvero, non tale per attestati antichi o recenti, doveva parlare, fosse pure nella angosciosa certezza di rinunziare con ciò al bene supremo, alla mano ed al cuore di Margherita. Il danno era immenso; ma non sarebbe lungamente durato. Solo in ciò confidava. — Là! là! — disse il signor Anselmo, commosso, un po' stendendo la mano per battergli amorevolmente sul braccio, un po' tirandola a sè per rasciugarsi una lagrima. — Non si lasci trasportare dalla vivacità dei suoi sentimenti. Ragioniamo, se è possibile. Intendo ch'Ella abbia voluto aprirsi intieramente con me: intendo, ed ammiro. Ma le cose non mi paiono così gravi, com'Ella le fa. La sua storia, se non si trattasse di quell'ottimo Zuliani, che c'è di mezzo, e al cui caso bisognerà provvedere, non mi farebbe, creda, nella mia veste di padre, nè caldo nè freddo. Quando ella si lasciava involgere, sconvolgere, travolgere.... ricordo la sua frase, vede?... Ella, dico, non conosceva ancora mia figlia. Del passato non ci può esser colpa per noi. L'uomo è nato cacciatore; si può dirlo qui.... nel suo paretaio; — soggiunse maliziosamente il signor Anselmo, che non rinunziava alla burletta, quando la sentiva germogliare sul labbro; — e bisognerebbe interrompere il corso della specie umana, ivi inclusa la discendenza di Nembrot, se si dovessero ricusare per generi gli uomini che sono stati a caccia. — Qui il signor Anselmo

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