Il ponte del Paradiso di Anton Giulio Barrili pagina 42

Testo di pubblico dominio

nel colmo dell'ira un batuffolo, afferrò i polsi di lei, premendo così forte, da strapparle un grido d'angoscia, e da costringerla tosto, sebbene riluttante, ad aprire le palme. — Va! — disse ancora, respingendola a tutta forza, per modo ch'ella andò riversa sul pavimento. Fu quella l'unica violenza usata da Raimondo Zuliani contro la donna che lo aveva così crudelmente ingannato, e più crudelmente levato d'inganno. Si rialzò la misera Livia sulle ginocchia, supplicando. Non diede ascolto Raimondo, e fuggì. XIV. È il destino! Livia era rimasta spossata, fisicamente e moralmente spossata, inerte il corpo, inerte la mente. Soltanto dopo un tratto di tempo, cedendo alla sensazione del freddo che la coglieva così discinta com'era, macchinalmente si trascinò fino alla sponda del suo letto, tante volte abbandonato nel corso di quella notte dolorosa; ma fu grande fatica per lei, a ridursi sotto le coltri. Aveva bisogno di riposo; e l'ebbe la persona, non l'anima, pur troppo; non l'anima, che, ravvivata da un ritorno di calore alle membra, non poteva egualmente rinfrancarsi in una serie di quieti pensieri e d'imagini liete. Dio, che cosa aveva ella mai fatto! Cessate il parossismo della febbre, sentiva allora, riconosceva finalmente tutto l'orrore dell'atto dissennato, commesso in una crisi nervosa. Il suo male! “Mia madre è morta pazza„, aveva ella detto il giorno innanzi a Filippo. E così fosse morta pur lei, che aveva parlato in un vero accesso di follia, e viveva, povera carne sofferente, disdegnata in mal punto da chi avrebbe dovuto farle la carità di una stretta alla gola, che finisse in lei ogni rimorso, ogni spasimo. Ed ora, quante rovine intorno a lei! e fatte nella pazzia d'un istante da lei! Così quando un fiume si gonfia, infuria e straripa; dove già si stendevano campi ubertosi, suscitando speranze di popolo onestamente operoso, tutte in un subito le speranze svaniscono; vanno perdute, col terreno sconvolto e colle piante sradicate, le care promesse di un viver modesto ma sicuro; e i tetri fantasmi degli anni squallidi, che seguiranno al disastro d'un giorno, si levano minacciosi su sterili lande, spogliate d'ogni cosa, fuorchè di rena e di sassi. Finita in ugual modo la pace signorilmente lieta del palazzo Orseolo; finite le gaie conversazioni, le fastose comparse ai balli, ai teatri, alle pubbliche feste, dove la felicità dei trionfi ottenuti luccicava nel volto, mentre l'invidia doveva esprimersi in sorrisi a fior di labbro, o consumarsi in sè stessa e tacere. In quella vece, oramai, le ciarle assassine del mondo elegante, i sogghigni maliziosi del salotto, gli scherni del crocchio; lei, finalmente, su tutte le bocche, e il suo caso diventato la favola della città. Orribile idea! E quell'altro? Ah, solo pensando a quell'altro, ella s'irrigidiva nel suo amor proprio offeso, nel suo orgoglio ferito, e poteva sentirsi non del tutto pentita. Quella grande rovina involgeva anche lui. Certo, dopo il suo triste risveglio, Raimondo Zuliani non avrebbe più mosso un dito per la felicità di quell'uomo. Frattanto la casa taceva, come se fosse incantata, o i servitori temessero tutti di farsi vivi col più lieve rumore. Avevano sentito qualche cosa del terribile colloquio? Forse sì, forse no: ad ogni modo, non era quello il momento di darsene pensiero. La gente di servizio è poi così avvezza a certe scenate padronali, in una casa o nell'altra! Ne bisbiglia discretamente, e tacitamente conchiude: “i vizi dei signori!„ godendone anche un pochino in cuor suo. Il pane che si mangia servendo, non può sgradire questi condimenti, che lo rendono più saporito. Ma infine, che importano i suoi commenti, fossero anche malevoli? La gente di servizio ha l'obbligo di fare l'ufficio suo e tacere, mostrando negli atti di non aver nulla sentito. E per intanto non si sentiva di alcuno nè la voce nè il passo. Ma infine quel gran silenzio fu rotto da una scampanellata all'uscio di casa. E poco dopo il Giovanni batteva delle nocche sull'uscio della camera, chiedendo il permesso di aprir l'uscio a mezzo, per gittar dentro poche parole. Annunziava una visita. E come una visita a quell'ora? Ma era il signor Brizzi, che domandava per grazia di veder la signora. — Debbo dirgli che è ancora a letto? — chiedeva il vecchio servitore, quasi precorrendo la risposta. — No no; — rispose in quella vece la signora Zuliani, — fatelo entrare nel salottino; mi vesto in fretta, e vengo. — Ella indossava ancora (e se ne avvide in quel punto) la sua veste da camera, tutta discinta, ed anche malamente gualcita dai moti incomposti, dai tramutamenti irrequieti d'una notte febbrile. Ma questo era il menomo guaio; e pel signor Brizzi, che era quasi della famiglia, poteva passare anche un po' di scompiglio nell'assetto mattutino. Raccolta la veste al seno, gittato uno sciallettino intorno al collo, la signora Livia si ravviò alla meglio i capelli davanti alla specchiera, e passando rasente allo stipo, non senza un brivido per l'ossa, ne rialzò e richiuse lo sportello a ribalta, ch'era rimasto calato; indi frettolosa si avviò nel salottino, dove il signor Brizzi aspettava. Il pover uomo era tutto sconvolto, contraffatto nel viso, tanto ch'ella, al vederlo in quello stato, tremò di qualche nuova disgrazia. — Signora.... signora.... — balbettò egli, muovendole incontro, — che cos'è avvenuto stamane? Io veramente, non dovrei farmi lecito.... Ma il caso è così grave!... — Grave! — esclamò la signora. — Che cosa è accaduto di grave? Mi dica Lei, signor Brizzi. — Il signor Raimondo, — riprese egli allora, — il signor Raimondo.... che doveva andare alla stazione per le nove, non è andato. — Un sorriso sarcastico sfiorò le pallide labbra di Livia. — Ah, non è andato! — diss'ella. — Come lo sa? — Lo so, perchè il signor Raimondo è venuto al banco una mezz'ora fa, proprio quando avrebbe dovuto prendere la via della stazione. Ella sa che il banco non si apre mai prima delle dieci. Ma io, questa mattina, c'ero andato per tempo, volendo spacciare con più calma un lavoro urgente. Stavo scrivendo, quando sentii cacciare una chiave nella toppa e subito aprirsi l'uscio. Mi alzai, corsi a guardare in sala; era il principale. Molto alterato in faccia, si avvide appena della mia presenza: lo salutai, mi rispose a stento. Notavo frattanto che con questo freddo egli era vestito alla leggera, in soprabito. Gliene dissi; mi fece una spallata, rispondendo: “ho caldo, molto caldo„. Feci qualche domanda, parendomi che non dovesse star bene; ma egli ripigliò spazientito: “Brizzi, lasciatemi stare, debbo scrivere una lettera„. Non fiatai più, e mi trassi indietro, ma senza uscir dalla stanza, non perdendolo d'occhio. Appena seduto, aveva incominciato a scrivere, ma senza venire a capo di nulla, gettando foglietti nel cestino, l'un dopo l'altro, appena incominciato a vergarne una o due righe. È in collera con qualcheduno, pensai; si scrive male, quando si è agitati: Veduto che uno di quei foglietti, gittato via con atto d'impazienza, era volato fuor della bocca del cestino sul pavimento, mi chinai a raccoglierlo per collocarlo al suo posto. Avrò fatto male, signora; ma gli occhi mi corsero allo scritto, che incominciava così: “Signor Conte„. — La signora Zuliani aveva inarcate le ciglie; un tremito la prese al cuore, diffondendosi tosto per tutte le membra. Nondimeno, ella si contenne ancora. — E nient'altro? — domandò. — Nient'altro; — rispose il signor Brizzi. — Forse in qualche altro foglio ci sarà stato di più. Dopo alcuni minuti di quel vano lavoro, osai interromperlo, e riparlargli del suo abito troppo leggero, offrendogli di mandare a prendere il suo pastrano. “Sì, mi disse, mandate a casa il fattorino. E lasciatemi stare, ho da scrivere questa lettera.... parecchie lettere; se voi mi state qui sempre alle costole, non riesco a far nulla; non vedete che ho il cervello in fiamme?„ Chiesi

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Argomenti: grande fatica,    vero accesso,    grande rovina,    sorriso sarcastico,    abito troppo

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