Il ponte del Paradiso di Anton Giulio Barrili pagina 30

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tuo fare così largo, così espansivo, sarai capace di star zitto? — L'osservazione non era piacevole; ma Raimondo ebbe il buon senso di mandarsela in celia. — Ah sì, birichina? Perchè non ho saputo tenere un segreto con te, mi credi incapace di star zitto con gli altri? Ma con te era un'altra cosa, mia bella. Non potevo tacerti più a lungo un'idea che mi premeva tanto, e che contro il tuo pensare, permetti, mi pareva e mi pare sempre più una bella cosa. — Puoi dirla anche bellissima; — rispose la signora. Che si canzona? Un milione e duecento cinquantamila lire, e poi la dote di cinquecentomila. — No, cara; la dote prima, l'eredità poi, e speriamo assai tardi. — È tutt'uno; e verrà egli in possesso di tutto. — Neanche questo; sarà tutta roba dei figliuoli. — Che han da venire; — commentò la signora. — Ed egli frattanto amministrerà. — Amministrare non è scialacquare, ed egli vorrà tenere i suoi conti in regola. Oh, infine, perchè una ragazza è ricca, non troverà più un galantuomo che s'innamori di lei? E se il galantuomo s'innamora, dovremo noi sospettarlo di secondi fini? Sii giusta, amica mia, sii ragionevole. — Sì, sì, quello che vorrai; tanto più che non ho da farci uno sforzo; — rispose la signora, ridendo di quel suo riso pazzesco. — Un giudizio interiore sugli atti del prossimo nostro non si può soffocare, ecco tutto. Ma il fare una bella o una brutta cosa, risguarda lui. Resta che io non gli entrerò di nulla, e tu nemmeno; altrimenti un po' d'amaro dovrebbe uscir fuori. — Ma perchè, Dio santo, perchè? — Sei tu che me lo domandi? Tu, a buon conto, hai sposato una donna che non aveva un soldo. Ho detto un soldo. — Bella forza! — esclamò Raimondo. — Quella donna era Livia la bella. — Anche quell'altra è bella, ma con la ricchezza in più. — Bella, sì, non lo nego; — riprese Raimondo. — Ma che paragoni vuoi fare? Sono essi possibili? Riconosco tutto quello che va riconosciuto; ma sopra Livia, o alla pari con Livia, niente, niente; hai capito? vuoi che vada a gridarlo sul campanile di San Marco? — Livia era in quel momento un po' avanti a lui. Si arrestò, mentre egli finiva la frase, gli appoggiò le spalle sul petto, e arrovesciando il capo sull'omero di lui, volse la faccia ridente per modo che il galante marito potè cogliervi un bacio. Quella sera Filippo Aldini capitò al palazzo Orseolo; non sull'ora del caffè, come Raimondo avrebbe desiderato, ma pochi minuti più tardi. Fu accolto con grazia incantevole dalla padrona di casa, e di ciò fu contento Raimondo assai più che di poter offrire all'amico una chicchera del primo caffè di Venezia. Così, fatto felice con poco, Raimondo parlò volentieri per tre, mentre Filippo anche più volentieri ascoltava, e la signora Livia guardava i giornali, interrompendo di tratto in tratto quella leggera occupazione con qualche breve sparizione; per dar ordini, naturalmente, e una volta poi per ritornare tutta gloriosa e trionfante con una gran busta di velluto azzurro, che posò sulla tavola sotto gli occhi dell'Aldini. — Confetti? — mormorò egli, tanto per dire qualche cosa. — Se ne gradisce, signor conte; — rispose la signora, facendo scattare il coperchio. — Per serate di gala. — Filippo Aldini rise involontariamente dell'errore in cui era caduto. Ma l'errare è da uomini, specie in simili cose. La gran busta di velluto azzurro racchiudeva nella sua custodia di raso bianco un gioiello stupendo, una specie di diadema tra lo stile egizio e l'etrusco. Un cerchio d'oro, che s'andava assottigliando verso i capi, e che doveva nascondersi mezzo entro le ciocche della capigliatura, reggeva nella sua parte anteriore un serpente, avvolto in larghe spire, eretto il collo e spalancate le fauci, in atto di ghermire una farfalla. L'idea, forse, non era nuova; ma la facevano parer tale, se mai, le grazie di un'arte squisita, e più di tutto una leggerezza di esecuzione che contrastava mirabilmente colla varietà della materia posta in opera, e tutta distribuita in piena evidenza. Il serpente era coperto per intiero di smeraldi sul dorso, di crisòliti nel ventre, con aggiunta di carbonchi nella cresta e negli occhi: la farfalla aveva il corpo formato di tre zaffiri, e le ali tempestate di brillanti; screziate di brillanti minuscoli le antenne, e terminate in due rappettine di brillanti più grossi, tremolanti e scintillanti ad ogni moto dei loro tenui sostegni. Insomma, era uno splendore, una maraviglia, un portento. Filippo ammirò, come doveva, esaminando attentamente in ogni parte il lavoro, e lodò senza fine il buon gusto della scelta. — Della scelta! — esclamò Raimondo, — Non ne ho nessun merito. Era il meglio della vetrina, e la grande ultima novità di Parigi. Con queste raccomandazioni, non c'era da scegliere; bisognava portar via senz'altro. — Ti loderò dunque di aver portato via; — disse Filippo. — Sei contento? — Raimondo è un angelo; — sentenziò la signora. — Angeli in terra, e coi baffi! — gridò Raimondo, con accento di protesta. — In terra, mia cara, non ci sono altri angeli che le donne: e aggiungerò: alcune donne. — Angeli caduti di lassù, dunque; — fu pronta a ribattere la signora Livia; — voleranno male, non ti pare? E saranno anche capricciosi, diseguali d'umore, come siamo noi troppo spesso. Ma tu, Raimondo, sei sempre quello d'un giorno. Dica Lei, Aldini; non pensa come me, che Raimondo è un angelo? — Filippo Aldini sentiva di fare in quell'idilio maritale una parte abbastanza ridicola. Avrebbe per intanto voluto trovare qualche idea che gli facesse gioco, rialzando un pochettino la sua condizione di terzo incomodo. — Raimondo è banchiere; — diss'egli. — Come banchiere gradirà le cambiali a due firme. Ma non qui certamente; e il mio avallo varrebbe poco, anzi diciamo pure che guasterebbe, dove ella ha parlato così bene. Io so per mio conto che Raimondo Zuliani è la perla degli amici. — Ah, ne conviene? — gridò la signora con accento di viva esaltazione, mentre gli occhi le si accendevano d'un lampo subitaneo. Filippo si era già pentito della sua giunta. Gli passò per la mente che da quelle sue parole si prendesse occasione ad entrargli del suo matrimonio, che era ancor di là, molto di là da venire. Ma non se ne fece nulla; il lampo subitaneo degli occhi si spense, l'accento si rifece pacato, ed anche Raimondo si era fatto sollecito a cangiare argomento. Ne uscì dunque colla paura; e frattanto uno squillo del campanello in anticamera annunziava visite. Entravano pochi istanti dopo in salotto il cavaliere Lunardi e il maestro di musica. Oh bravi! Filippo Aldini li avrebbe di gran cuore abbracciati. Anche la signora Livia fu molto contenta di quei due arrivi. E come no? Erano due gentiluomini della sua corte, e si dimostravano singolarmente fedeli; erano anche i più utili, l'uno per tener viva la conversazione, l'altro per variarla con un pochino di musica. — Abbiamo pensato che era mercoledì, e che Ella non andava a teatro; — disse il cavaliere Lunardi, stringendo devotamente la mano che Livia gli stendeva con gesto regale. — Usanza vecchia; — rispose ella. — Bisognerà cambiarla. — Perchè? — Per far novità, non le pare? Il mondo cammina; non possiamo star fermi noi, che ci dobbiamo viver dentro. — Oh, signora, non si dia pensiero del mondo. Quando avrà ben camminato, si stancherà. Noi facciamo intanto il comodo nostro. Ed ella, per carità, non ci levi la nostra buona serata. — Ella è sempre gentile, signor cavaliere. Ma io non la leverò di qui, se non per vederla ancora a teatro. — Tra queste ed altre chiacchiere d'uguale importanza, il maestro di musica era andato al pianoforte. E suonò, quasi sarebbe inutile il dirlo, un po' di Bohème, quindi un po' di Manon; anzi delle due Manon: avrebbe suonato anche un po' di Tosca, se la Tosca fosse già stata messa in musica e portata agli onori della scena. Ma ciò,

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Argomenti: star zitto,    lampo subitaneo,    giudizio interiore,    galante marito,    grazia incantevole

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