Marocco di Edmondo De Amicis pagina 52

Testo di pubblico dominio

destrezza, la precisione con cui facevano in pezzi i polli, il montone allo spiedo, la caccia, i pesci, ogni cosa. Con pochi movimenti rapidissimi delle mani, senza scomporsi menomamente, ognuno spiccava giusta e netta la sua porzione. Pareva che avessero delle unghie taglienti come rasoi. Immergevano le dita nelle salse, facevano delle palle di cuscussù, mangiavano l’insalata a manate, e non un briciolo, non una goccia cadeva fuor del piatto; e vedemmo infatti quando s’alzarono che avevano i caffettani bianchi immaculati come prima. Di tratto in tratto un servo portava in giro una catinella e un asciugamano; si davano una lavatina e poi tutti insieme rituffavano lo zampino in un altro piatto. Nessuno parlava, nessuno alzava gli occhi, nessuno mostrava d’accorgersi che noi fossimo là a contemplarli. Che ufficiali saranno stati? Maggiori di stato maggiore? Aiutanti di campo? Capi-divisione del Ministero della guerra? Chi può saper nulla nel Marocco, particolarmente dell’esercito, che è il più misterioso di tutti i misteri? Si dice, per esempio, che nel caso d’una guerra santa, quando sia proclamata la legge Djehad, che chiama tutti gli uomini validi alle armi, l’Imperatore può raccogliere duecentomila soldati; ma se non si conosce nemmeno presso a poco il numero della popolazione dell’Impero, su che fondamento s’appoggia quella cifra? E l’esercito permanente, chi sa quanto sia? E a chi riesce di saper qualcosa, non solo del numero, ma dell’ordinamento, se, fuor dei capi, nessuno sa nulla, e questi o non vogliono rispondere, o non dicono il vero, o non sanno farsi capire? Sid-Abd-Allà, cortesissimo ospite, volle aver scritti sul suo portafoglio i nostri nomi e ci accomiatò stringendosi sul cuore le mani di tutti. Eravamo già sulla porta, quando ci raggiunse il gigante turchino. Ci fermammo, egli ci guardò sorridendo furbescamente e poi disse sottovoce in pretto italiano, salvo la pronunzia moresca: —Signori, stiano bene! Ci balenarono alla mente le corbellerie dette a tavola e restammo fulminati. —Ah cane!—gridò l’Ussi. Ma il cane era già sparito. * * * Ogni passeggiata è una piccola spedizione militare: bisogna avvertire il caid, radunare una scorta, cercare un interprete, mandar a prendere le cavalcature, e prima che tutto sia in ordine ci vuole un’ora. Perciò restiamo gran parte della giornata in casa. Ma lo spettacolo della casa ci compensa largamente della prigionia. È una processione continua di soldati rossi, di servi neri, di messi della corte, di negozianti della città, di mori malati che cercano il medico, di rabbini che vengono a inchinare l’Ambasciatore, d’ebree che portano mazzi di fiori, di corrieri che portan lettere da Tangeri, di facchini che portano la muna. Nel cortile lavorano dei musaicisti per Visconti Venosta; sulla terrazza, dei muratori; in cucina, un visibilio di cuochi; nel giardino, i negozianti stendono le loro stoffe e il signor Vincent le sue uniformi; il medico si dondola in una branda appesa a due alberi; i pittori dipingono davanti alla porta della loro camera; i soldati e i servi saltano e gridano nei vicoli intorno; tutte le fontane zampillano col rumore d’una pioggia dirotta e fra gli aranci e i limoni del giardino cantano centinaia d’uccelli. Il giorno si passa fra il giuoco della palla e la storia del Kaldun; la sera fra gli scacchi e i canti, diretti dal Comandante, primo tenore di Fez. La notte la passerei meglio, se non mi passassero continuamente davanti, come fantasmi, i neri servi di Mohammed Ducali, che dorme in una stanzina accanto alla mia. Nella mia dorme pure il dottore e abbiamo fra tutti e due un povero diavolo di servo arabo che ci fa morire dalle risa. Ci dicono che è di famiglia, se non agiata, non bisognosa, e che s’aggregò come servo alla carovana, a Tangeri, per fare un viaggio di piacere. Appena arrivato a Fez, meta del suo viaggio di piacere, non so per che mancanza, ma per poca cosa di certo, fu legnato. Dopo d’allora si mise a servirci con uno zelo furioso. Non capisce nulla, nemmeno i gesti; ha sempre l’aspetto d’un uomo spaventato; gli domandiamo gli scacchi, porta la sputacchiera; ieri il medico gli disse d’andargli a prendere del pane; lui, per far più presto, gli portò un pezzo di crosta che trovò in mezzo al giardino. Abbiamo un bel rassicurarlo: ha terrore di noi, cerca di placarci con ogni sorta di servizi stranissimi, che non gli domandiamo: compreso quello di cambiare tre volte l’acqua nella catinella prima ancora che ci alziamo da letto. Di più, per farci una cosa grata, aspetta ogni mattina, ritto in mezzo alla stanza, colla tazza del caffè in mano, che il dottore od io ci svegliamo, e al primo che dia il menomo segno di vita, gli si precipita addosso e gli caccia la tazza sotto il naso colla furia d’uno che voglia far bere un contravveleno. Un altro bel personaggio è la lavandaia, un donnone col viso coperto, la sottana verde e i calzoncini rossi, che viene a pigliar la nostra biancheria, destinata, ahimè! alle zampate dei mori. È superfluo il dire che non ci stirano nulla: in tutta Fez non esiste un ferro da stirare, e noi ci rimettiamo la roba tale e quale esce di sotto alle zampe dei lavandai.—Forse,—ci fu detto,—ci sarà qualche ferro nel Mellà!—C’è di tutto; il difficile è trovare. C’è, per esempio, una carrozza; ma appartiene all’Imperatore. Si dice che c’è pure un pianoforte; lo si è visto entrare nella città anni sono; ma non si sa bene chi lo possegga. È un divertimento poi il mandar a comprare alle botteghe. Una candela?—Non c’è,—rispondono;—ma ve la facciamo subito.—Un metro di nastro? Sarà fatto per domani sera.—Dei sigari? Abbiamo il tabacco; ve li daremo fra un’ora.—Il viceconsole cerca da qualche giorno un vecchio libro arabo, e tutti i mori interrogati si guardano in viso e dicono:—Un libro? Chi ha dei libri a Fez? N’aveva uno tempo fa, se non c’inganniamo, il tale dei tali; ma è morto e non sappiamo chi siano gli eredi.—E giornali arabi, d’altri paesi, se ne potrebbero avere?—Un solo giornale arabo, stampato in Algeri, arriva regolarmente a Fez, ma è diretto all’Imperatore.—Insomma, ho un bel pensare che sono a meno di duecento miglia da Gibilterra, dove appunto stassera, probabilmente, si rappresenta la Lucia di Lammermor, e che di qui a otto giorni potrei passeggiare sotto la loggia dei Lanzi a Firenze. Malgrado ciò, provo il sentimento d’una lontananza immensa. Non son le miglia, son le cose e la gente che ci allontanano di più dal nostro paese. Con che piacere stracciamo la fascia alla Gazzetta Ufficiale e rompiamo il suggello alle lettere! Povere lettere che sfuggirono alle mani dei Carlisti, passarono in mezzo ai briganti della Sierra Morena, superarono le roccie della montagna rossa, sornotarono, strette dalla mano d’un beduino, le acque del Kus, del Sebù, del Meches, del fiume della fontana azzurra, e ci portarono una parola amorosa in mezzo agli improperi e alle maledizioni. * * * Passiamo molte ore a veder lavorare i pittori. L’Ussi ha fatto un bello schizzo del gran ricevimento, in cui è colta meravigliosamente la figura del Sultano; il Biseo, pittore valentissimo d’architettura orientale, sta copiando la facciata della casetta del giardino. Bisogna sentire, per divertirsi, i soldati e i negozianti di Fez che vengono a vedere quel quadretto. Vengono in punta di piedi alle spalle del pittore, guardano facendo cannocchiale della mano e poi quasi tutti si mettono a ridere come se avessero scoperto qualche grande stranezza. La grande stranezza è che nel disegno il secondo arco della facciata è più piccolo del primo, e il terzo più piccolo del secondo. Digiuni come sono d’ogni idea di prospettiva credono quella ineguaglianza un errore, e dicono che i muri sono storti, che la casa balla, che la porta è fuori di posto, e ne fanno le alte meraviglie, e se ne vanno dando di ciuco all’artista. L’Ussi

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