Marocco di Edmondo De Amicis pagina 48

Testo di pubblico dominio

divulgatissima fra il volgo moresco che in tutti gli oggetti dei cristiani ci sia qualcosa di diabolico.—Ma non c’è nulla!—esclamarono tutti e due ad una voce.—Ma qui sta,—risposi per mezzo di Selam,—qui sta appunto il meraviglioso di questi cappelli soprannaturali, che facciano quello che fanno, senz’aiuto d’ordigni!—Selam rise, essi sospettarono la celia, e allora m’ingegnai di spiegare il meccanismo nascosto; ma mi parve che ne capissero poco. Domandarono poi, andandosene, se i cristiani mettevano quella molla nei cappelli «per ricreazione.»—E tu, domandai a Selam—che cosa ne dici di questi arnesi?—Dico,—rispose con un’alterezza sprezzante, appuntando il dito contro il cappello,—che se dovessi vivere cento anni nei vostri paesi, forse, a poco poco, adotterei la vostra maniera di vestire,—le scarpe, la cravatta ed anche i brutti colori che piacciono a voi;—ma quell’arnese lì,—quella orribile cosa nera... ah! Dio m’è testimonio che vorrei piuttosto la morte! A questo punto comincia il mio giornale di Fez, che abbraccia tutto il tempo trascorso dal ricevimento dell’Imperatore fino alla partenza per Mechinez. * * * 20 Maggio.
..... Oggi il primo custode del palazzo ci diede in segretezza la chiave della terrazza, raccomandandoci caldamente di usare prudenza. Pare ch’egli abbia ricevuto ordine, non di rifiutarci quella chiave, ma di non darla che quando ne fosse pregato; e questo perchè le terrazze (a Fez come nelle altre città del Marocco) appartengono alle donne, e sono considerate quasi come un’appendice dell’arem. Siamo dunque saliti sulla terrazza, che è vastissima, e tutta circondata da un muro più alto d’un uomo, munito di alcune finestre della forma di feritoie. Il palazzo essendo molto alto, e posto in un luogo eminente, si vedono di lassù migliaia di terrazze bianche, le alture circostanti alla città, i monti lontani; e sotto, un altro piccolo giardino, di mezzo al quale s’alza una palma smisurata, che sorpassa l’edifizio di quasi un terzo del proprio fusto. Avvicinando il viso a quelle finestrine, ci parve d’affacciarci a un mondo nuovo. Sulle terrazze vicine e lontane v’erano molte donne, la maggior parte, a giudicar dal vestito, di condizione agiata,—signore,—se questo titolo si può dare alle donne moresche. Parecchie stavano sedute sui parapetti, altre passeggiavano, alcune saltellavano con un’agilità di scoiattoli di terrazza in terrazza, si nascondevano, ricomparivano, e si spruzzavano acqua nel viso ridendo come pazze. Più d’una era seduta in un atteggiamento che avrebbe senza dubbio corretto se avesse sospettato che l’occhio d’un uomo la stava osservando. C’erano vecchie, giovani, bambine di otto o dieci anni, tutte con vestiti di forme bizzarre e di colori vivissimi. Le più avevano le treccie giù per le spalle, un fazzoletto di seta rossa o verde stretto intorno al capo a modo di benda, una specie di caffettano di vario colore, con larghe maniche, serrato intorno alla vita da una cintura azzurra o vermiglia; un corpettino di velluto aperto sul petto; calzoncini, babbuccie gialle e grossi anelli d’argento sopra la noce del piede. Le serve e le bambine non avevano altro che la camicia. Una sola di queste «signore» era abbastanza vicina da poterne discernere il viso. Era una donna sui trent’anni, vestita in gala, affacciata a una terrazza posta a un salto di gatto sotto la nostra. Guardava in un giardino, colla testa appoggiata sulla mano. La osservammo col cannocchiale. Dei del cielo, che pittura! Nero d’antimonio sotto gli occhi, rossetto sulle guancie, bianchetto nel collo, hennè sulle unghie: era tutta una tavolozza. Ma bella, malgrado i trent’anni: un visetto pieno, due occhi a mandorla, velati di lunghe ciglia e languidissimi; un nasino un po’ rivolto in su; una boccuccia rotonda, secondo l’espressione dei poeti moreschi, come un anello; e un corpicino di silfide di cui il vestito sottile metteva in evidenza le curve molli e gentili. Pareva triste, e forse era cagione della sua tristezza una quarta sposa di quattordici anni, entrata nell’arem pochi dì innanzi, della quale essa aveva già sentito il trionfo nel freddo amplesso di suo marito. Di tratto in tratto si guardava una mano, un braccio, le treccie che le cadevano sul seno, e sospirava. Una voce sfuggita a un di noi la riscosse; guardò in su, e accortasi che la guardavamo, scavalcò il parapetto della terrazza colla destrezza d’un acrobata, saltò sopra una terrazza sottostante, e scomparve. Per veder meglio, mandammo a pigliare una seggiola, si giocò a pari e dispari a chi toccasse pel primo, toccò a me, la misi contro il muro, vi salii su e riuscii con mezzo il busto al disopra del parapetto. Fu come l’apparizione d’un nuovo astro nel cielo di Fez: mi si passi il paragone immodesto. Mi videro subito dalle prime case, fuggirono, ricomparvero, annunziarono l’avvenimento alle donne delle terrazze più vicine; in pochi minuti, di terrazza in terrazza, si sparse la notizia per mezza la città; sbucarono curiose da tutte le parti, io mi trovai alla berlina. Ma la bellezza dello spettacolo mi tenne fermo al mio posto. Erano centinaia di donne e di bambine, ritte sui parapetti, sulle torricine, sulle scale esterne, tutte rivolte verso di me, tutte vestite di colori fiammanti, dalle più vicine di cui discernevo i volti attoniti, fino alle più lontane, d’altri quartieri della città, che apparivano appena come puntini bianchi, verdi e vermigli; alcune terrazze affollate che sembravano piene di fiori; per tutto un brulichio, un va e vieni, un gesticolamento, da parere che tutta quella gente assistesse a qualche fenomeno celeste. Per non mettere sottosopra tutta la città, tramontai, ossia discesi dalla seggiola, e per qualche minuto non ci salì nessuno. Poco dopo stava alla berlina il Biseo ed era anch’egli bersagliato da mille sguardi, quando, sopra una terrazza lontana, tutte le donne gli voltarono improvvisamente le spalle, e corsero ad affacciarsi dalla parte opposta; e così di terrazza in terrazza, per una lunga fila di case. Sul primo momento non capimmo che cosa fosse accaduto. Il vice-console fu il primo a indovinarlo.—Un grande avvenimento,—disse;—passano per le strade di Fez il Comandante e il capitano.—E infatti di lì a poco, si videro rosseggiare sopra una delle alture che dominano la città, le divise dei soldati della scorta, e col cannocchiale si riconobbe il Comandante ed il capitano a cavallo. Un altro voltafaccia di donne sopra un gran numero di terrazze, ci annunziò, poco dopo, il passaggio d’un’altra comitiva italiana; e trascorsi dieci minuti vedemmo biancheggiare sull’altura opposta la cuffía egiziana dell’Ussi e il cappello inglese del Morteo. Dopo questo l’attenzione universale si rivolse daccapo a noi, e saremmo stati là a godercela un pezzo; ma sopra una terrazza vicina cinque o sei monelle di schiave, di tredici o quattordici anni, si misero a guardarci e a sghignazzare così insolentemente, che fummo costretti, per il decoro della cristianità, a privare il bel sesso metropolitano della nostra meravigliosa presenza. * * * Ieri siamo stati a pranzo dal Gran Visir Taib Ben Iamani, soprannominato Boascerin, che significa, secondo alcuni, vincitore al gioco della palla, e secondo altri, padre di venti figli: gran vizir, però, non d’altro che di titolo, per aver occupato quella carica suo padre sotto il regno del precedente Sultano. Il messo latore dell’invito fu ricevuto dall’Ambasciatore in nostra presenza. —Il Gran Vizir Taib Ben Iamani Boascerin,—disse con molta gravità,—prega l’Ambasciatore d’Italia e il suo seguito di voler pranzare oggi in casa sua. L’Ambasciatore ringraziò. —Il Gran Vizir Taib Ben Iamani Boascerin,—continuò colla stessa gravità—prega pure l’Ambasciatore e il suo seguito di portar le forchette e i coltelli e di condurre con sè i loro servi per farsi

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Argomenti: nuovo astro,    volgo moresco,    freddo amplesso,    cappello inglese,    sesso metropolitano

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