Marocco di Edmondo De Amicis pagina 74

Testo di pubblico dominio

colla barba bianca; mi rassicurai. —Formiamo il quadrato!—gridò il cuoco. —Non c’è bisogno—risposi. Il vecchio della barba bianca s’era scoperto il capo e si dirigeva verso di me colla berretta in mano. Era un Israelita. A dieci passi, si fermò col suo seguito, ch’era composto di altri quattro Israeliti e di cinque servi arabi, e fece cenno di volermi parlare. —Hable Usted, risposi. —Sono il tale dei tali,—disse in spagnuolo, con una voce dolce inchinandosi in atteggiamento di profondo rispetto;—agente consolare d’Italia e di tutti gli altri stati d’Europa nella città d’Arzilla. Ho l’onore di essere al cospetto di sua eccellenza l’Ambasciatore d’Italia, reduce da Fez, partito questa mattina da Laracce e diretto a Tangeri? Caddi dalle nuvole. Poi presi un atteggiamento grave e girai un lento sguardo sul mio corteo, che sfolgorava di maestà e di gioia. Dopo aver così assaporato per un minuto secondo gli onori del ricevimento ufficiale, disingannai, sospirando, il vecchio israelita, e dissi chi ero. Ne parve un po’ spiacente, ma non cangiò modo per questo. Mi offerse la sua casa per riposarmi, e io non accettando, volle ad ogni costo accompagnarmi nel luogo destinato all’accampamento. Ci dirigemmo dunque tutti insieme, girando intorno alla città, verso la riva del mare. Ah! se m’avessero visto, in quel breve tragitto, l’Ussi e il Biseo! Quanto dovevo esser pittoresco io, rappresentante d’Italia in groppa a una mula, con una ciarpa bianca attorcigliata intorno al capo, seguito dal mio stato maggiore composto d’un cuoco in maniche di camicia, di due marinai armati di bastone e d’un moro stracciato! O arte italiana, quanto hai perduto! Arzilla, Zilia dei Cartaginesi, Julia Traducta dei Romani, passata dalle mani di questi in potere dei Goti, saccheggiata dagl’Inglesi verso la metà del decimo secolo, rimasta per trent’anni un mucchio di sassi, poi rifabbricata da Abd-er-Rhaman ben Alì califfo di Cordova, posseduta dai Portoghesi e ripresa dai Marocchini, non è più che una cittaduzza di poco più di mille abitanti tra mori ed ebrei; circondata, dalla parte di terra e dalla parte di mare, da alte mura merlate, che cadono in rovina; bianca e quieta come un chiostro, e improntata, come tutte le altre piccole città maomettane, di quella ridente malinconia, che fa pensare al sorriso d’un moribondo, il quale goda di sentirsi mancare la vita. La sera, sul tramonto, arrivò l’Ambasciatore, che venne all’accampamento attraversando la città; e ho ancor vivo dinanzi agli occhi lo spettacolo di quella bella cavalcata piena di colori e di vita, che uscendo da una gran porta merlata, s’avanzava in un pittoresco disordine, lungo la riva dell’Oceano, gettando sulla sabbia rosata dal crepuscolo, le sue lunghissime ombre nere; e risento la tristezza che provai in quel momento dicendo tra me:—Peccato! Peccato che questo bel quadro si debba dissolvere, questo bel quadro che contiene tant’Affrica e tanta Italia, tanti lieti pronostici e tante care memorie!—E là infatti si può dire che terminasse il nostro viaggio, poichè la mattina seguente ci accampavamo a Ain-Dalia, e due giorni dopo rientravamo in Tangeri, dove la carovana si scioglieva in quella medesima piazzetta del piccolo mercato, da cui due mesi prima era partita. Il comandante, il capitano, i pittori ed io partimmo insieme per Gibilterra. L’Ambasciatore, il viceconsole, tutta la gente della legazione ci accompagnò fin sulla riva del mare. Gli addii furono molto affettuosi. Tutti erano commossi, anche il buon generale Hamed ben Kasen, il quale stringendo la mia mano contro il suo largo torace, mi disse tre volte l’unica parola europea che sapesse:—A Dios!—con una voce che veniva dal cuore. Appena mettemmo il piede sul bastimento, oh! quanto ci parve lontana e di spazio e di tempo tutta quella fantasmagoria di pascià, di neri, di tende, di moschee, di torri merlate! Non era soltanto un paese, era un mondo che in quel momento spariva ai nostri occhi, e un mondo che eravamo quasi certi di non rivedere mai più. Un po’ d’Affrica, però, ci accompagnò fino a bordo, e furono i due Selam, Alì, Hamed, Abed-er-Rhaman, Civo, i servi del Morteo ed altri bravi giovanotti, a cui la superstizione mussulmanna non aveva impedito di voler bene ai Nazareni e di servirli con devozione. E anch’essi si accommiatarono da noi con vivaci dimostrazioni d’affetto e di rammarico, e Civo più degli altri, che facendo sventolare per l’ultima volta ai miei occhi il suo camicione bianco, mi s’attaccò al collo come un amico d’infanzia, e mi stampò due baci in un orecchio. E quando il piroscafo partì, ci salutarono ancora, tutti ritti in una barca, sventolando i loro fez rossi, e gridando fin che li potemmo sentire:—Allà sia sulla vostra strada! Tornate al Marocco! Addio ai Nazareni! Addio agli Italiani! Addio! Addio!

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