Marocco di Edmondo De Amicis pagina 43

Testo di pubblico dominio

boschi e irrigate da mille ruscelli, sulla riva destra del Fiume delle perle.» La tradizione spiega in vario modo l’origine di quel nome. Scavando per le fondamenta si sarebbe trovata nella terra una grande scure (che si chiama in arabo Fez) del peso di sessanta libbre, e questa avrebbe dato il nome alla città. Lo stesso Edris, dice un’altra leggenda, lavorava alle fondamenta in mezzo ai suoi operai, i quali, in segno di gratitudine, gli offrirono una scure d’oro e d’argento, ed egli volle perpetuare nel nome della nuova città la memoria di quell’omaggio. Secondo un altro racconto, il segretario d’Edris avrebbe domandato un giorno al suo Signore qual nome egli intendesse di porre alla città.—Il nome, rispose il principe, della prima persona che incontreremo.—Passò un uomo, lo interrogarono, rispose che si chiamava Farès; ma essendo balbuziente, pronunziò invece di Farès, Fez, e il principe ritenne questo nome. Altri dice che si chiamava Zef una grande città posta sul Fiume delle perle, la quale esistette mille e ottocento anni e fu distrutta prima che l’Islam risplendesse sulla terra; ed Edris impose alla sua metropoli il nome rovesciato della città distrutta. Comunque sia, la città nuova s’accrebbe rapidamente, e già sul principio del decimo secolo rivaleggiava di splendore con Bagdad; racchiudeva fra le sue mura la moschea El-Caruin e quella d’Edris, ancora esistenti, una la più vasta e l’altra la più venerata dell’Affrica; ed era chiamata la Mecca dell’occidente. Verso la metà del undicesimo secolo Gregorio IX ci stabiliva un episcopato. Sotto la dinastia degli Almoadi, aveva trenta sobborghi, ottocento moschee, novantamila case, diecimila botteghe, ottantasei porte, vasti ospedali, bagni magnifici, una grande biblioteca ricca di preziosissimi manoscritti greci e latini; scuole di filosofia, di fisica, d’astronomia e di lingua, a cui accorrevano dotti e letterati d’ogni parte d’Europa e Levante; si chiamava l’Atene dell’Affrica, ed era ad un tempo la sede d’una fiera perpetua, dove affluivano i prodotti dei tre continenti; e il commercio europeo v’aveva i suoi bazar e i suoi alberghi, e vi prosperavano, tra mori, arabi, berberi, ebrei, neri, turchi, cristiani e rinnegati, cinquecentomila abitanti. Ed ora quanto mutata! Quasi tutti i giardini sono scomparsi, la più parte delle moschee rovinarono, della gran biblioteca non rimane che qualche volume tarlato, le scuole son morte, il commercio languisce, gli edifici si sfasciano, e la popolazione è ridotta a meno assai della quinta parte dell’antica. Fez non è più che una enorme carcassa di metropoli abbandonata in mezzo all’immenso cimitero del Marocco. La nostra maggiore curiosità, dopo la prima passeggiata per Fez, era di visitare le due famose moschee El-Caruin e Mulei-Edris; ma essendo vietato ai cristiani di mettervi piede, ci dovemmo contentare del po’ che se ne vede dalle strade: le porte ornate di musaici, i cortili ad archi, le navate basse e lunghissime, divise da una foresta di colonne e rischiarate da una luce misteriosa. Non è però da credere che queste moschee siano oggi quali erano al tempo della loro gran fama, poichè già nel secolo decimoquinto, il celebre storico Abd-er-Rhaman ebn-Kaldun, descrivendo quella d’El-Caruin (che Dio la nobiliti di più in più, com’egli dice), accenna a parecchi ornamenti che non esistevano più ai suoi tempi. Le prime fondamenta di questa immensa moschea furono gettate il primo sabato di Ramadan; l’anno 859 di Gesù Cristo, a spese d’una pia donna del Kairuan. Era da principio una piccola moschea di quattro navate; ma l’abbellirono e l’ampliarono a poco a poco governatori, emiri e sultani. Sulla cima del minareto, innalzato dall’Imam Ahmed ben Aby Beker, brillava una palla d’oro, tempestata di perle e di pietre preziose, nella quale era confitta la spada d’Edris-ebn-Edris, fondatore di Fez. Alle pareti interne erano appesi dei talismani che premunivano la moschea dai nidi dei topi, degli scorpioni e dei serpenti Il Mirab—la nicchia rivolta verso la Mecca—era così splendido, che gl’imam dovettero farlo imbiancare perchè non distraesse i fedeli dalla preghiera. V’era un pulpito d’ebano ornato d’avorio e di gemme. V’erano duecento settanta colonne che formavano sedici navate di ventun arco ciascuna, quindici grandi porte d’entrata per gli uomini e due piccole per le donne, e mille settecento lampade che nella ventisettesima notte di Ramadan consumavano tre quintali e mezzo d’olio. Tutti particolari che lo storico Kaldun reca con grandi esclamazioni di meraviglia e di gioia, soggiungendo che fra le navate, il cortile, le gallerie, i vestiboli e le soglie delle porte, misurato lo spazio palmo per palmo, la moschea potea contenere ventiduemila settecento persone, e che per pavimentare il solo cortile erano stati impiegati cinquantaduemila mattoni. «Gloria ad Allà, signore dei mondi, immensamente misericordioso e re del giorno del giudizio finale!». Aspettando che il Sultano fissasse il giorno per il ricevimento solenne, si fecero varie passeggiate, in una delle quali ricevetti «un’impressione» affatto nuova per me. Ci avvicinavamo alla Porta bruciata, Beb-el-Maroc, per rientrare in città, quando il vice-console uscì in una esclamazione che mi fece rabbrividire:—Due teste!—Alzai gli occhi al muro, intravvidi due lunghe striscie di sangue rappreso e non ebbi cuore di guardar più su. Erano due teste, mi dissero, appese per i capelli al di sopra della porta; una che pareva d’un giovanetto d’una quindicina d’anni, l’altra d’un uomo tra i venticinque e i trenta: tutti e due mori. Si seppe in seguito ch’erano state appese nella notte, e si diceva che fossero due teste di ribelli delle terre confinanti coll’Algeria, portate a Fez il giorno avanti. Ma il sangue colato faceva sospettare che fossero state recise nella città medesima e forse davanti a quella medesima porta. Comunque fosse, ci fu noto in quella occasione che le teste dei ribelli sono sempre, dalla terra ribellata, portate alla sede della corte e presentate al Sultano; dopo di che i soldati imperiali acciuffano il primo ebreo che incontrano, gli fanno cavare dalle teste il cervello e riempire il vuoto di stoppa e di sale, e le appendono a una porta della città. Dopo che son state là qualche giorno—a Fez, per esempio—un corriere se le mette in un canestro e le porta a Mechinez, dove sono esposte daccapo, e poi ritolte per essere portate a Rabatt, e via via, di città in città fin che sian putrefatte. Non sembra però che questo sia accaduto delle due teste di Beb-el-Maroc, poichè il giorno dopo, non vedendole più, domandammo a un servo arabo che cosa ne avessero fatto, ed egli rispose con un gesto:—Sepolte.—Ma s’affrettò a soggiungere, come per consolarci:—Ce n’è già per strada molte altre. Due giorni prima del ricevimento solenne, fummo invitati a colezione da Sid-Mussa. Sid-Mussa non ha il titolo nè di gran vizir, nè di ministro, nè di segretario; si chiama semplicemente Sid-Mussa; è nato schiavo; è un mancipio del Sultano, che domani può spogliarlo d’ogni suo avere, cacciarlo in fondo a una prigione o fare appendere il suo capo ai merli di Fez, senza renderne conto a nessuno; ma è nello stesso tempo il ministro dei ministri, l’anima del governo, la mente che tutto abbraccia e tutto move dall’Oceano alla Muluia e dal Mediterraneo al deserto, e dopo il Sultano il personaggio più famoso dell’Impero. Si può dunque immaginare la curiosità che ci fremeva dentro, la mattina che, circondati, come al solito, di gente armata, e accompagnati dal Caid e dagl’interpreti, ci recammo, con un lungo codazzo di popolo, a casa sua, che si trova nella nuova Fez. Fummo ricevuti alla porta da uno stuolo di servi arabi e neri, ed entrammo in un giardino chiuso da alti muri, in fondo al quale, sotto un piccolo portico, aspettava Sid-Mussa,

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Argomenti: grande città,    due teste,    decimo secolo,    commercio europeo,    servo arabo

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