Marocco di Edmondo De Amicis pagina 38

Testo di pubblico dominio

conosciuta in tutto l’Oriente per la sua virtù inebriante. Nel Marocco se ne fa grandissimo uso, e si può dire che sono quasi tutte vittime di questa foglia deleteria, quegli arabi e mori, molto frequenti nelle città, che guardano chi passa cogli occhi sbarrati e stupidi, e camminano, quasi strascicandosi, come gente sbalordita da una percossa nel capo. La maggior parte fumano il kif, mescolato con un po’ di tabacco, in piccolissime pipe di terra cotta; altri lo mangiano in una specie di pasta dolce chiamata madjun, fatta con burro, miele, noce moscata e garofani. Gli effetti sono stranissimi. Il dottor Miguerez, che ne aveva fatto esperimento, me ne parlava sovente, dicendo, fra le altre cose, ch’era stato preso da un accesso di riso irresistibile, e che gli pareva di sentirsi sollevato da terra, tanto che, passando sotto un portone alto due volte lui, aveva chinato la testa per paura d’urtare. Stimolato dalla curiosità, io l’avevo pregato più volte di darmi una porzioncina di madjun, poca, per non perdere affatto la bussola, ma bastante a farmi vedere e sentire qualcuna almeno delle mille meraviglie ch’egli mi raccontava. Il bravo dottore per i primi giorni si scusò, dicendo che sarebbe stato meglio fare l’esperimento a Fez, con tutti i comodi; ma io continuai a sollecitarlo, e a Zeguta, finalmente, un po’ a controvoglia, mi presentò in un piattino il boccone sospirato. Eravamo a tavola. Con me, se non m’inganno, ne presero un po’ l’Ussi e un altro po’ il Biseo; ma di quello che abbia prodotto in loro, non mi ricordo. Era una pasta molle, di colore violetto e di sapore di pomata. Per una mezz’ora circa, dalla minestra alle frutta, non sentii nulla, e già canzonavo il dottore per le sue paure. Ma lui mi rispondeva:—Aspetti, aspetti—e sorrideva. I sintomi dell’ebbrezza, infatti, si manifestarono alle frutta. Fu da principio una viva ilarità e una rapidissima parlantina. Poi cominciai a ridere di tutto quello che sentivo dire e che dicevo io stesso; ogni parola mia e d’altri mi faceva l’effetto d’un’arguzia finissima; ridevo dei servi, degli sguardi dei miei commensali, della mia seggiola squilibrata, delle figurine dipinte sui tondi, della forma di certe bottiglie, del colore del cacio che mangiavo. All’improvviso m’accorsi che non avevo più la testa a segno e mi diedi a pensare a qualche cosa di serio per contenermi. Pensai al ragazzo che volevan bastonare la mattina. Povero ragazzo! M’inteneriva. Avrei voluto condurlo in Italia, farlo educare, fargli abbracciare una carriera. L’amavo come un figlio. E anche il caid Abù-ben-Gileli, povero vecchio. Il caid Abù-ben-Gileli l’amavo come un padre. E i soldati della scorta? Eran tutti buoni ragazzi, pronti a difenderci, a rischiar la vita per noi. Io li amavo come fratelli. Amavo pure li Algerini, e perchè no? pensavo; non sono della stessa razza dei Marocchini? E poi, che razza! Siamo fratelli tutti, siamo stretti ad un patto, bisogna amarci, io amo, io sono felice, e mettevo il braccio intorno al collo del dottore, che scoppiava dalle risa. Da quest’allegrezza caddi a un tratto in una mestizia confusa e profonda. Ricordai le persone che avevo offese, i dolori di cui ero stato cagione a coloro che m’amavano, mi sentii oppresso da mille rimorsi e da mille rammarichi, mi parve di sentire delle voci che mi parlavano nell’orecchio con un accento d’amore e di rimprovero, mi pentii, domandai perdono, mi asciugai furtivamente una grossa lacrima che mi tremolava nell’occhio. Poi mi si levò nella memoria un turbinìo rapidissimo d’immagini disparate e bizzarre che svanivano l’una nell’altra: certi amici d’infanzia dimenticati, certe parole di dialetto non più pronunziate da vent’anni, dei visi di donna, il mio antico reggimento, Guglielmo il Taciturno, Parigi, l’editore Barbera, un cappello di castoro che avevo da bimbo, l’Acropoli d’Atene, il conto d’un albergatore di Siviglia, mille stranezze. Ricordo confusamente che i commensali mi guardavano sorridendo. Di tratto in tratto chiudevo gli occhi e poi li riaprivo e non sapevo se avessi o no dormito, se fossi stato così un minuto o mezz’ora. Avevo un pensiero lucido nel capo, cominciavo a parlare, dicevo:—una volta sono andato.... Dove sono andato? Chi è andato? Tutto era svanito. I pensieri brillavano e si spegnevano come lucciole, fitti, intricati, inestricabili. A un certo punto vidi l’Ussi con una testa allungata come un’immagine riflessa da uno specchio convesso; il Viceconsole con un viso largo due palmi; tutti gli altri assottigliati, gonfi, scontorti, contraffatti come caricature fantastiche, che mi facevano delle smorfie inesprimibilmente buffe; ed io ridevo e dondolavo il capo e sonnecchiavo e pensavo ch’eran tutti matti, che ci trovavamo in un altro mondo, che nulla di quel che vedevo era vero, che stavo male, che non capivo che cosa fosse accaduto, che non sapevo dove fossi. E poi tutto fu buio e silenzio. E quando rinvenni in me, mi trovai sotto la mia tenda, steso sul letto, col dottore accanto, il quale, guardandomi al lume della candela, disse sorridendo:—È passata, via; ma dev’esser la prima e l’ultima volta. DA ZEGUTA AL TAGAT Mentre io corro qua e là in cerca della mia cavalcatura, che non so come, ritrovo poi appiattata in mezzo ai bagagli, l’Ambasciata parte. Avrei ancora tempo di raggiungerla; ma all’uscita dall’accampamento, scendendo per una china rocciosa, la mula vacilla, la sella si slaccia, la letteratura precipita, ci vuole una mezz’ora per riassestare ogni cosa, e addio Ambasciata! Mi tocca fare il viaggio solo, seguito alla lontana da un servo zoppicante, che arriverà appena in tempo, quando io sia assalito, a vedermi dare gli ultimi tratti. Sia fatta la volontà d’Allà! La campagna è deserta e il cielo nuvoloso. Di mezz’ora in mezz’ora vedo comparire, sulla sommità delle alture lontane, una cavalcata variopinta e sparsa, in mezzo alla quale riconosco il cavallo bianco dell’Ambasciatore e il caffettano rosso di Selam; e per qualche momento mi pare di non esser più solo; ma la cavalcata sparisce, e la solitudine mi torna a pesare sul cuore. A un’ora dall’accampamento raggiungo una retroguardia di dodici cavalieri, condotti dal vecchio Abu Ben Gileli, il caid delle cinquanta bastonate, il quale mi lancia uno sguardo terribilmente espressivo rasente la schiena. Sorrido umilmente e passo oltre. Esco dalla bella valle che si dominava collo sguardo dall’accampamento, e m’inoltro in un’altra valle spaziosa, fiancheggiata da alture ripidissime, vestite d’aloé e d’olivi, che formano come due grandi muraglie verdi a destra e a sinistra d’una immensa strada diritta, chiusa, in fondo, da una cortina di monti azzurri. Incontro parecchi arabi, che si fermano per vedermi passare e guardano intorno, stupiti ch’io non sia scortato. Mi assaltano? non mi assaltano? Uno s’accosta a un albero, ne stacca in fretta e in furia un grosso ramo, e mi corre incontro. Ci siamo! Arresto la mula, afferro la pistola. Egli si mette a ridere e mi porge il bastone, spiegandomi che l’ha staccato per me, per picchiare la mula, che non vuol camminare. In quel momento mi vedo venir incontro, di gran galoppo, due soldati della scorta. La mia ora, si vede, non è ancora sonata. I due soldati mi si mettono uno a destra e uno a sinistra, come due carabinieri, e mandano innanzi il mio quadrupede col calcio dei fucili,—dicendo:—Embasciador! Embasciador!—Li ha mandati l’Ambasciatore a vedere che cosa è accaduto di me. Meritano una ricompensa. Mi fermo, ed offro loro una bottiglietta di vino che porto in tasca. Non dicono nè si nè no; si guardano sorridendo, mi accennano che non ne han mai bevuto.—Assaggiate,—dico io col gesto. Uno prende la bottiglia, versa una goccia sulla palma della mano, dà una leccata e rimane un momento pensieroso. L’altro fa lo stesso. Poi si guardano, si mettono a ridere e fanno

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Argomenti: cavallo bianco,    caffettano rosso,    pasta dolce,    dolce chiamata,    portone alto

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