Marocco di Edmondo De Amicis pagina 58

Testo di pubblico dominio

occorre, da maniere umili e insieme dignitose, che paiono indizio d’animo gentile. E così m’ingannarono nei primi giorni; ma ora son persuaso che l’ultimo di costoro crede, in fondo al cuore, di valer infinitamente più di tutti noi messi in un mazzo. Gli arabi nomadi conservano almeno la semplicità austera dei costumi antichi, ed i Berberi selvaggi hanno lo spirito guerriero, il coraggio, l’amore dell’indipendenza. Costoro soli congiungono in sè barbarie, depravazione e superbia, e son la parte più potente della popolazione dell’Impero: quella che dà i negozianti, gli ulema, i tholba, i Caid, i pascià; che possiede i ricchi palazzi, i grandi arem, le belle donne, i tesori nascosti; riconoscibile alla pinguedine, alla carnagione chiara, all’occhio astuto, ai grossi turbanti, all’andatura maestosa, alla fiaccona, ai profumi, alla boria. * * * Il moro Scellal ci condusse a prendere il tè in casa sua. Entrammo per uno stretto corridoio in un cortiletto oscuro, ma bellissimo; bellissimo, ma sucido quanto le più sucide case del ghetto d’Alkasar. Fuor che i musaici del pavimento e dei pilastri, tutto era nero, crostoso, viscoso, schifoso. Vi sono due stanzine buie a terreno; al primo piano, gira una galleria, e sulla sommità dei muri il parapetto della terrazza. Il grosso moro ci fece sedere davanti alla porta della sua stanza da letto, ci diede il tè e dei dolci, ci bruciò dell’aloè, ci spruzzò d’acqua di rosa e ci presentò due suoi bambini graziosissimi, che s’avvicinarono a noi bianchi dalla paura e tremarono come foglie sotto le nostre carezze. Dal lato opposto del cortile v’era una ragazza nera d’una quindicina d’anni, non vestita d’altro che d’una camicia tagliata da una parte in modo che lasciava vedere la gamba nuda dal fianco fino al piede, e stretta alla cintura, che segnava tutte le forme del corpo: il più snello, il più elegante, il più seducente corpo di donna, lo attesto sul capo del signor Ussi, ch’io abbia visto nel Marocco fino al momento in cui scrivo. Era una schiava. Stava appoggiata a un pilastro colle braccia incrociate sul seno e ci guardava con aria di suprema indifferenza. Poco dopo uscì da una porticina un’altra nera, una donna sui trent’anni, d’alta statura, di viso austero, di forme robuste, diritta come il fusto d’un aloè, la quale, per quello che ci parve, doveva essere una favorita del padrone, poichè gli si avvicinò famigliarmente, gli susurrò alcune parole nell’orecchio e gli tolse una festuca dai baffi, premendogli la mano sulle labbra, con un certo atto tra sbadato e carezzevole, di cui il moro sorrise. Alzando gli occhi, vedemmo tutta la galleria del primo piano e tutto il parapetto della terrazza coronati di teste di donne, che si nascosero immediatamente. Era impossibile che fossero tutte donne della casa. Quelle della casa avevano senza dubbio annunziato la visita dei cristiani alle amiche delle case vicine, e queste dalle loro terrazze s’erano arrampicate o buttate giù sulla terrazza dello Scellal. In un momento che guardavamo in su, ce ne passarono accanto tre come tre larve, col capo tutto coperto, e sparirono in una porticina. Erano tre amiche che non avendo potuto entrare in casa per la terrazza, avevano dovuto rassegnarsi a entrar per la porta; e un momento dopo comparirono le loro teste sopra il parapetto della galleria. La casa, insomma, s’era convertita in teatro, e noi eravamo lo spettacolo. Le spettatrici, tutte velate, cinguettavano, ridevano sommessamente, facevano capolino e si ritiravano con una rapidità che pareva che scattassero; ad ogni nostro movimento, corrispondeva un leggero mormorìo; ogni volta che alzavamo la testa, seguiva un gran tumulto nei palchi di prim’ordine; si capiva che si divertivano, che raccoglievano materia per un mese di conversazione, che non stavano in sè dal piacere di trovarsi, così inaspettatamente, dinanzi a uno spettacolo tanto bizzarro e tanto raro! E noi, compiacenti, concedemmo loro questo spettacolo per quasi un’ora; silenziosi, però, e tediati; effetto che produce, dopo qualche tempo, ogni casa moresca, per quanto sia cortese l’ospitalità che vi si riceve. Poichè, dopo aver ammirato i bei musaici, le belle schiave e i bei bimbi, si cerca quasi istintivamente la persona che incarna la vita domestica, che rappresenta la gentilezza e l’onore della casa, che suggella l’ospitalità, che colora la conversazione, che vi alita nell’anima l’aura dei Lari;—si cerca, insomma, la perla di questa conchiglia;—e non vedendo che donne a cui il padrone dà gli amplessi e non il cuore, e figliuoli di madri sconosciute, e tutta la casa personificata in un solo, l’ospitalità riesce una fredda cerimonia, e nell’ospite spariscono i tratti simpatici d’un amico che v’onora, sotto l’aspetto d’un sensuale e odioso egoista. * * * Non c’è dubbio che questa gente, se proprio non ci odia, almeno non ci può patire, e non gliene mancano, tra buone e cattive, le ragioni. Nei discendenti dei mori di Spagna, molti dei quali conservano ancora chiavi di città andaluse e titoli di possessione di terre e di case di Siviglia e di Granata, è viva particolarmente l’avversione alla Spagna, da cui i loro padri furono spogliati, sterminati, banditi. Tutti gli altri odiano generalmente tutti i cristiani, non solo perchè quest’odio è istillato loro nelle scuole e nelle moschee fin dall’infanzia, collo scopo di renderli avversi ad ogni commercio colle genti civili;—commercio che, scemando la superstizione e l’ignoranza, scalzerebbe le fondamenta dell’edifizio politico e religioso dell’Impero;—ma perchè hanno tutti in fondo all’anima il vago sentimento d’una forza espansiva, crescente, minacciosa degli Stati europei, dalla quale tosto o tardi saranno schiacciati. Sentono rumoreggiare la Francia alle loro frontiere di levante; vedono gli Spagnuoli fortificati sulla loro costa del Mediterraneo; Tangeri, occupata da un’avanguardia di cristiani; le città occidentali, guardate da negozianti europei distesi su tutta la costa dell’Atlantico come una catena di sentinelle avanzate; ambasciate che percorrono il paese in tutte le direzioni, per recare dei doni al Sultano, in apparenza, ma in realtà, pensan loro, per vedere, scrutare, fiutare, corrompere, preparare il terreno; sentono, insomma, la minaccia perpetua d’un’invasione e immaginano quest’invasione accompagnata da tutti gli orrori dell’odio e della vendetta, persuasi, come sono, che i Cristiani nutrano contro i Mussulmani gli stessi sentimenti che nutrono loro contro di noi. Come possono poi cangiare quest’avversione in simpatia vedendo noi, stretti nei nostri abiti impudichi, che segnano le forme; vestiti di colori sinistri; noi, carichi di taccuini, di cannocchiali, di strumenti misteriosi, che ci ficchiamo per tutto, notiamo tutto, misuriamo tutto, vogliamo saper tutto; noi che ridiamo sempre e non preghiamo mai; noi irrequieti, chiaccheroni, beoni, fumatori, pieni di pretese, e pitocchi, che abbiamo una donna sola, e non un servo dei nostri paesi! E si formano dell’Europa un’idea oscura, come d’un’immensa congerie di popoli turbolenti, dove regni una vita febbrile, tutta ambizioni ardenti, vizi sfrenati, tumulti, viaggi, imprese temerarie, un affanno, un rimescolìo vertiginoso, una confusione di Babelle, che dispiace a Dio. * * * Oggi gran rumore nel palazzo, a cagione del primo ed unico tentativo di conquista amorosa, fatto da un cristiano del basso personale dell’ambasciata. Questo buon giovane, al quale cominciava a pesare, a quel che sembra, la vita diplomaticamente austera che si mena da quaranta giorni; avendo visto, non so di dove, una bella mora che passeggiava in un giardino, pensò (tutti hanno le loro debolezze) ch’essa non avrebbe potuto resistere alle attrattive della sua bella persona, e senza badare al pericolo s’insinuò per un buco del muro nel recinto vietato. Se, giunto in

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Argomenti: vago sentimento,    spettacolo tanto,    unico tentativo

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