Marocco di Edmondo De Amicis pagina 42

Testo di pubblico dominio

parola, ballonzolando davanti ai soldati, che li cacciano via a spintoni. Svoltando in un’altra strada, incontriamo un santo, un vecchio smisuratamente pingue, nudo dalla testa ai piedi, che si trascina a fatica tenendo una mano dove i pittori metton la foglia di fico, e appoggiandosi coll’altra a una lancia fasciata di panno rosso. Passandoci accanto, ci guarda di sbieco e brontola non so che cosa. Un po’ più oltre, vediamo quattro soldati che trascinano un disgraziato tutto lacero e sanguinoso,—un ladro colto sul fatto,—e dietro uno sciame di ragazzi che gridano:—La mano! La mano! Tagliargli la mano!—In un’altra strada, incontriamo due uomini che portano una barella scoperta sulla quale è disteso un cadavere, stecchito come una mummia, ravvolto in un sacco di tela bianca stretto intorno al collo, alla vita e alle ginocchia. Io mi domando dove sono, se sogno o son desto, e se la città di Fez e la città di Parigi si trovano veramente sul medesimo astro! Entriamo nei bazar. Per tutto c’è folla. Le botteghe, come a Tangeri, sono tane aperte nel muro. I cambisti sono seduti in terra, con un mucchio di monete nere dinanzi. Attraversiamo, pigiati dalla folla, il bazar delle stoffe, quello delle pantofole, quello della terraglia, quello degli ornamenti di metallo, che formano tutti insieme un labirinto di stradicciuole coperte da un tetto sfracellato di canne e di rami d’albero. Passiamo per mercati di verzura affollati di donne che alzano le braccia per maledirci, e usciamo dalla parte centrale della città. Daccapo salite, discese, giri, rigiri, vicoli tetri, passaggi tenebrosi, moschee, fontane, porte arcate, rumor di mulini, cori di voce nasali, donne che si nascondono, un sudiciume che ammorba e un polverio che leva il fiato. Usciamo finalmente per una porta delle mura e facciamo un giro intorno alla città. La città si stende in forma d’un otto immenso fra due colline, sulla cima delle quali torreggiano le rovine di due antiche fortezze quadrate. Di là dalle colline c’è una corona di monti. Il Fiume delle perle divide la città in due, Fez nuova, sulla riva sinistra, Fez antica, sulla destra; e una cintura di vecchie mura merlate e di grosse torri, di un fosco color calcare, rotta in più punti, stringe tutt’intorno la parte antica e la nuova. Dalle alture si domina collo sguardo tutta la città: una miriade di case bianche coronate di terrazze, al di sopra delle quali s’alzano bei minareti lavorati a musaico, palme gigantesche, mucchi di verzura, torricine merlate, cupolette verdi. A primo aspetto, s’indovina la grandezza della metropoli antica, di cui la città d’oggi non è più che lo scheletro. In vicinanza delle porte e sopra le alture, per un grande spazio la campagna è sparsa di monumenti e di rovine: cube, case di santo, zauie, archi d’acquedotti, sepolcri, ruderi enormi, traccie di fondamenta che paiono i resti d’una città spianata dal cannone e divorata dalle fiamme. Tra la città e la più alta delle due colline che la fiancheggiano, è tutto un giardino, un bosco fitto e intricatissimo di gelsi, d’olivi, di palme, d’alberi fruttiferi e di pioppi smisurati, vestiti d’edera e di pampini, dove da ogni parte corrono rigagnoli, zampillano fontane e s’incrociano canali, fra spalliere altissime di verzura e di fiori. L’altura opposta è coronata di migliaia d’aloè alti due volte un uomo. Lungo le mura sono grandi scoscendimenti di terreno, fossi profondi, ricolmi di vegetazione; frammenti immani di bastioni e di torri franate; un disordine grandioso e severo di rovine e di verde, che rammenta i tratti più pittoreschi delle mura di Costantinopoli. Passiamo dinanzi alla porta del Ghisa, alla porta di Ferro, alla Porta del Padre delle Cuoia, alla porta nuova, alla porta bruciata, alla porta da aprirsi, alla porta del Leone, alla porta di Sidi Buxida, alla porta del Padre dell’Utilità, e rientriamo, per la porta della Nicchia del burro, nella nuova Fez. Qui sono grandi giardini, vasti spazi aperti, larghe piazze circondate di mura merlate, di là dalle quali si vedono altre piazze e altre mura, e porte arcate e torri e ponti, e bellissimi prospetti lontani di colline e di monti. Alcune porte sono altissime e hanno i battenti rivestiti di lastre di ferro, tempestate di enormi chiodi. Avvicinandoci al Fiume delle perle, troviamo un cavallo fradicio steso in mezzo alla strada. Lungo il muro v’è un centinaio d’arabi lavandai, che saltellano sopra la biancheria ammucchiata sulla sponda. Incontriamo pattuglie di soldati, personaggi di corte a cavallo, piccole carovane di cammelli, frotte di donne della campagna, coi bimbi sospesi alla schiena, che si coprono il viso passandoci accanto. E finalmente vediamo dei visi che ci sorridono. Entriamo nel Mellà, il quartiere degli Ebrei. È una vera entrata trionfale. S’affacciano alle terrazze e alle porte, scendono nella strada, si chiamano l’un l’altro, accorrono da tutti i vicoli. Gli uomini capelluti e ravvolti nel loro lungo vestito, col capo coperto d’un fazzoletto annodato sotto il mento, come le donne, s’inchinano con un sorriso cerimonioso. Le donne, bianchissime, rotondette, vestite di panni verdi e rossi gallonati e ricamati d’oro, ci augurano buenos dias e ci dicono mille cose gentili coi loro smaglianti occhi neri. Alcuni bimbi ci vengono a baciare le mani. Per sottrarci a quell’ovazione e al sudiciume delle strade, prendiamo una via traversa e riusciamo in un campo tutto coperto di grandi sepolcri di muratura, della forma di parallelepipedi, bianchi come la neve, che ci dicono essere il cimitero israelitico. Di qui torniamo in città, e dopo un altro miglio di cammino per strade tortuose e immonde, bruciati dal sole, saettati da mille sguardi, maledetti da mille bocche, rientriamo finalmente, colla testa in tumulto e le ossa rotte, nel palazzo dell’Ambasciatore. O Fez!—dice uno storico arabo—tutte le beltà della terra sono riunite in te! E soggiunge che Fez è stata sempre la sede della saggezza, della scienza, della pace, della religione; la madre e la regina di tutte le città del Magreb; che i suoi abitanti hanno l’ingegno più fino e più profondo degli altri abitanti del Marocco; che tutto quello che è in essa e intorno ad essa è benedetto da Dio; persino l’acqua del Fiume delle perle, la quale guarisce dal mal della pietra, immorbidisce la pelle, profuma i panni, distrugge gl’insetti, rende più dolci (se è bevuta a digiuno) i piaceri dei sensi e contiene pietre preziose d’inestimabile valore. E non meno poeticamente è raccontata dagli scrittori arabi la storia della sua fondazione. Quando gli Abassidi, sul finire dell’ottavo secolo, si divisero in due fazioni, un principe della fazione vinta, Edris-ebn-Abd-Allà, si rifugiò nel Magreb, poco lontano dal luogo dove sorse poi la città di Fez; e qui visse nella solitudine, pregando e meditando, finchè per la sua origine illustre e per la sua santa vita, avendo acquistato gran fama in mezzo ai Berberi della contrada, questi lo elessero loro capo. A poco a poco, colle armi e coll’alta autorità di discendente d’Alì e di Fatima, egli estese la sua sovranità sopra una gran parte del paese, convertendo forzatamente all’islamismo idolatri, cristiani ed ebrei; e pervenne a tal grado di potenza, che il Califfo d’Oriente Arun-er-Rescid, ingelosito, lo fece avvelenare da un finto medico, per distruggere con lui il suo impero nascente. Ma i Berberi diedero solenne sepoltura ad Edris e riconobbero per Califfo un suo figliuolo postumo Edris-ebn-Edris, il quale salì sul trono a dodici anni, consolidò ed accrebbe l’opera del padre, e si può dir che sia stato il vero fondatore dell’Impero del Marocco, il quale rimase fino alla fine del decimo secolo nelle mani della sua dinastia. Fu questo medesimo Edris che gettò le prime fondamenta di Fez il tre febbraio dell’anno 808, «in un vallone posto fra due alte montagne coperte di ricchi

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Argomenti: grande spazio,    ladro colto,    decimo secolo,    disordine grandioso,    cavallo fradicio

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