Marocco di Edmondo De Amicis pagina 19

Testo di pubblico dominio

ed è composta di tutti gli uomini atti alle armi dai sedici ai sessantanni. Alcuni avevano il turbante, altri un fazzoletto rosso annodato intorno al capo; tutti il caffettano bianco. Quando arrivammo alla tappa, si alzavano le ultime tende. L’accampamento era posto sopra un terreno arido e ondulato; da una parte, lontano, si vedeva una catena di monti azzurri; dall’altra, una catena di colline verdognole. A mezzo miglio dalle tende c’erano due gruppi di capanne di stoppia, mezzo nascoste dai fichi d’India. Ci radunammo tutti sotto una tenda. Appena eravamo seduti, arrivò correndo un soldato della Legazione, si piantò davanti all’Ambasciatore e disse con voce allegra:—La mona! —Venga,—rispose l’ambasciatore alzandosi. Tutti ci alzammo. Una lunga fila di arabi, accompagnati dal Comandante della scorta, dai soldati della Legazione e dai servi, attraversò l’accampamento, si venne a schierare davanti alla nostra tenda e depose ai piedi dell’Ambasciatore una gran quantità di carbone, d’ova, di zuccaro, di burro, di candele, di pani, tre dozzine di galline e otto montoni. Questo tributo era la muna. Oltre i gravi balzelli che pagano in denaro, gli abitanti della campagna sono obbligati a fornire a tutti i personaggi ufficiali, ai soldati del Sultano e alle ambasciate che passano, una certa quantità di viveri e d’altre provvigioni. Il Governo fissa la quantità; ma le autorità locali tassando gli abitanti a loro arbitrio, ne segue che la quantità di roba ricevuta, benchè sempre superiore ai bisogni, non è mai che una piccola parte di quella che è stata estorta un mese prima, o che sarà estorta forse anche un mese dopo il giorno della presentazione. Un vecchio, che doveva essere un capo di tribù, rivolse, per mezzo dell’interprete, qualche parola ossequiosa all’Ambasciatore. Gli altri, tutti poveri campagnoli vestiti di cenci, guardavano a vicenda noi, le tende e la loro roba,—i frutti del loro sudore sparsi per terra,—con un’aria tra mesta ed attonita, che rivelava una profonda rassegnazione. Fatta rapidamente la ripartizione della roba fra la mensa dell’ambasciata, la scorta, i mulattieri e i soldati della Legazione, il signor Morteo, ch’era stato nominato quella stessa mattina Intendente generale del campo, diede una mancia al vecchio arabo, questo fece un cenno ai suoi compagni, e tutti ripresero silenziosamente la via delle loro capanne. Allora cominciò, come doveva poi accadere tutti i giorni, un gran battibecco fra servi, mulattieri e soldati per la ripartizione della mona. Era una scena amenissima. Due o tre di loro andavano e venivano per il campo a passi concitati, con un montone fra le braccia, invocando Allà e l’ambasciatore; altri gridavano la loro ragione battendo i pugni in terra; Civo faceva sventolare di qua e di là il suo camicione bianco colla profonda persuasione di esser terribile; i montoni belavano, le galline scappavano, i cani latravano. A un tratto s’alzò l’Ambasciatore e tutto tacque. Il solo che brontolò ancora qualche momento fu Selam. Selam era un gran personaggio. Veramente due dei soldati della Legazione portavano questo nome, tutti e due addetti al servizio particolare dell’Ambasciatore; ma come dicendo Napoleone, se non s’aggiunge altro, s’intende Napoleone primo, così fra noi, in viaggio, dicendo Selam intendevamo dir quello solo. Come l’ho sempre vivo dinanzi agli occhi! Lui, Mohammed lo sposo, e l’Imperatore, sono veramente per me le tre figure più simpatiche ch’io abbia viste nel Marocco. Era un giovane bello, forte, svelto e pieno d’ingegno. Capiva tutto a volo, faceva tutto in furia, camminava a salti, parlava a sguardi, era in moto dalla mattina alla sera. Per i bagagli, per le tende, per la cucina, per i cavalli, tutti si rivolgevano a lui; egli sapeva tutto e rispondeva a tutti. Parlava mediocremente lo spagnuolo e sapeva qualche parola d’italiano; ma si sarebbe fatto capir anche coll’arabo, tanto la sua mimica era pittoresca e parlante. Per indicare una collina faceva il gesto d’un colonnello focoso che accenni al suo reggimento una batteria da assalire. Per fare un rimprovero a un servo, gli si precipitava addosso come se l’avesse voluto annientare. Mi rammentava ogni momento Tommaso Salvini nelle parti d’Orosmane e d’Otello. In qualunque atteggiamento si mostrasse, da quando versava l’acqua fredda sulla schiena all’ambasciatore a quando ci passava accanto di galoppo, inchiodato sul suo cavallo castagno, presentava sempre una figura bella, elegante ed ardita. I pittori non si stancavan mai di guardarlo. Portava un caffettano scarlatto e i calzoncini azzurri: si riconosceva alla prima da un’estremità all’altra della carovana. Nell’accampamento non si sentiva gridare che il suo nome. Correva di tenda in tenda, scherzava con noi, urlava coi servi, dava e riceveva ordini, si bisticciava, montava in collera, prorompeva in risa; quand’era in collera pareva un selvaggio, quando rideva pareva un bambino. In ogni dieci parole che dicesse, c’entrava el señor ministro. Il signor ministro, per lui, veniva subito dopo Allà e il suo profeta. Dieci fucili appuntati contro il suo petto non l’avrebbero fatto impallidire; un rimprovero non meritato dell’Ambasciatore lo faceva piangere. Aveva venticinque anni. Finito ch’ebbe di brontolare, venne vicino a me ad aprire una cassa. Mentre si chinava gli cadde il fez e gli vidi sulla testa rasa una larga macchia di sangue. Gli domandai che cos’era. Mi rispose che s’era ferito con uno dei grossi pani di zucchero della mona.—L’ho gettato in aria,—mi disse colla più gran serietà,—e l’ho ricevuto sulla testa,—Non capivo: si spiegò.—Faccio così,—mi disse,—per fortificarmi la testa. Le prime volte cascavo in terra tramortito, adesso non verso più che qualche goccia di sangue. Verrà il tempo che non mi scalfirò nemmeno la pelle. Tutti gli arabi fanno lo stesso. Mio padre si rompeva sul cranio dei mattoni spessi due dita, com’io ci romperei un pezzo di pane. Un vero arabo (conchiuse con aria altera, battendosi il pugno sul cocuzzolo) deve avere la testa di ferro. L’accampamento, quella sera, presentava un aspetto assai diverso da quello del giorno innanzi. Ognuno aveva già preso le sue abitudini. I pittori avevano rizzato i loro cavalletti davanti alla tenda e dipingevano. Il capitano era andato a osservare il terreno, il vice-console a raccogliere insetti, l’ex-ministro di Spagna alla caccia delle pernici; l’ambasciatore e il comandante giocavano a scacchi sotto la tenda della mensa; i servi si saltavano l’un l’altro appoggiandosi le mani sulle spalle; i soldati della scorta discorrevano seduti in cerchio; degli altri chi passeggiava, chi leggeva, chi scriveva; sembrava che fossimo attendati là da un mese. Se ci fosse stata una piccola stamperia, mi sarebbe saltato il grillo di fondare un giornale. Il tempo era bellissimo. Si desinò colla tenda aperta, e per tutto il tempo del desinare, i cavalieri di Had-el-Garbia festeggiarono l’ambasciata con cariche clamorose, rischiarate da uno splendido tramonto di sole. A tavola sedeva dinanzi a me Mohammed Ducali. Ebbi modo per la prima volta di osservarlo attentamente. Era il vero tipo del ricco moro, molle, elegante e ossequioso; e dico ricco, perchè si diceva che possedesse più di trenta case a Tangeri, quantunque in quel tempo i suoi affari fossero un po’ imbrogliati. Poteva avere una quarantina d’anni. Era alto di statura, di lineamenti regolari, bianco, barbuto; portava un piccolo turbante ravvolto in un caïc del più fino tessuto di Fez, che gli scendeva sopra un caffettano di panno amaranto ricamato; sorrideva per far vedere i denti, parlava spagnuolo con una voce femminea, guardava, s’atteggiava e gestiva con una languidezza da innamorato. In altri tempi aveva fatto il negoziante: era stato in Italia, in Spagna, a Londra, a Parigi, ed era tornato al Marocco con idee ed

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Argomenti: mezzo miglio,    fazzoletto rosso,    piccolo turbante,    intendente generale,    camicione bianco

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