Marocco di Edmondo De Amicis pagina 28

Testo di pubblico dominio

Battaglia di Vad-Ras, il 23 marzo del 1861, Sidi Absalam ben-Abd-el-Krim ben Auda, allora governatore di tutta la provincia del Garb. A questo Absalam succedette il figlio maggiore Sidi-Abd-el Krim. Era un uomo violento e dissipatore, che spogliava il suo popolo coi balzelli e lo torturava con capricci feroci. Un giorno, fra le altre, intimò a un tal Gileli Ruqui di dargli una grossa somma di denaro. Questo si scusò dicendo ch’era povero. Egli lo fece caricar di catene e cacciare in prigione. Allora la famiglia e gli amici del prigioniero, vendettero tutti i loro averi e portarono a Sid-Abd-el Krim la somma richiesta. Gileli uscì di prigione, e appena uscito, radunò tutti i suoi, e fece con loro il giuramento solenne di uccidere il Governatore. La casa del Ben-Auda era posta a due ore di strada circa da quel giardino. I congiurati l’assalirono, in gran numero, nel cuore della notte, inaspettati. Uccisero le sentinelle, irruppero nelle sale, straziarono a pugnalate Sidi-Abd-el-Krim, le sue belle, i bimbi, i servi, le schiave, devastarono e incendiarono la casa, e poi si gettarono a traverso il paese innalzando il grido della rivolta. I parenti e i partigiani dei Ben-Auda raccolsero in furia tutta la loro gente e andarono incontro ai ribelli. I ribelli li dispersero e la rivolta si propagò per tutto il Garb. Allora il Sultano mandò un esercito; la ribellione, dopo una lotta accanita, fu domata; le teste dei principali rivoltosi spenzolarono dalle mura di Fez e di Marocco; la terra dei Beni-Malek venne divisa dalla provincia; la casa del Governatore fu ricostrutta; e Sidi-Mohamed Ben-Auda, fratello dell’ucciso, ospite dell’Ambasciata italiana, assunse il governo della terra dei suoi padri. Una passeggera rivincita della disperazione sulla tirannia, seguìta da una tirannia più dura: in questo fatto si riassume la storia d’ogni provincia e di tutto l’Impero. E forse in quel tempo era già predestinato un Ruqui anche per Sidi-Mohamed Ben-Auda. Prima del tramonto del sole ci trovavamo tutti all’accampamento, ch’era posto poco lontano da quel giardino, in un piano solitario, ai piedi d’una piccola altura sulla quale si alzava una Cuba fiancheggiata da una palma. Appena arrivato l’Ambasciatore, fu portata la mona e deposta come sempre davanti alla sua tenda, in presenza dell’Intendente, del Caid, dei soldati e dei servi. Mentre eran tutti occupati a far la solita ripartizione, vidi, alzando gli occhi verso la cuba, un uomo di alta statura e d’aspetto strano che scendeva a lunghi passi giù per la china verso l’accampamento. Non c’era da dubitarne: era il romito, il santo, che ci veniva a fare una scena. Non dissi nulla: aspettai. Invece di entrare nell’accampamento, girò infuori, per giungere inaspettato dinanzi alla tenda dell’Ambasciatore. S’avvicinò in punta di piedi. Era una figura sepolcrale, coperta di cenci neri, che metteva schifo e paura. Tutt’a un tratto spiccò la corsa, si cacciò in mezzo a noi, e riconosciuto al vestito l’Ambasciatore, gli si scagliò contro urlando come un ossesso. Ma ebbe appena il tempo d’urlare. Con una rapidità fulminea, il Caid lo afferrò alla strozza e lo stramazzò furiosamente in mezzo ai soldati, i quali in un batter d’occhio lo portarono fuori del campo soffocando colle cappe la sua voce tonante. Il signor Morteo si affrettò a tradurci le invettive di quel disgraziato:—Sterminiamoli tutti questi maledetti cani di cristiani, che vanno dal Sultano, e fanno tutto quello che vogliono, mentre noi moriamo di fame! Poco dopo la presentazione della mona obbligatoria, arrivarono all’accampamento più di cinquanta servi arabi e neri, disposti in fila, che portavano in grandi scatole rotonde, chiuse da altissimi coperchi conici di paglia, ova, polli cotti, torte, dolci, arrosti, cuscussu, insalate, confetti; tanta roba da saziare una tribù affamata. Era una seconda mona, spontaneamente offerta all’Ambasciatore da Sidi-Mohamed-Ben-Auda, forse per farsi perdonare il cipiglio minaccioso della mattina. I piatti non erano ancora messi in terra, che comparve il governatore coi suoi cinque figli, tutti a cavallo, seguiti da uno stuolo di servi. L’Ambasciatore li ricevette nella sua tenda e conversò con loro per mezzo dell’interprete. Che conversazione! Che gente! L’Ambasciatore domandò a uno dei figliuoli se aveva mai inteso nominar l’Italia. Rispose che l’avea intesa nominare parecchie volte. Uno di loro domandò quale dei due paesi, l’Inghilterra e l’Italia, fosse più lontano dal Marocco. Domandarono quanti cannoni abbiamo, come si chiama la nostra città capitale e in che modo è vestito il nostro Re. Parlando, osservarono attentamente tutti e sei il nodo delle nostre cravatte e le catenelle dei nostri orologi. L’Ambasciatore rivolse al governatore alcune domande intorno all’estensione e alla popolazione della sua terra. O che non sapesse nulla, o che, secondo l’uso, non volesse dire quel che sapeva per timore di qualche secondo fine misterioso, non ci fu modo di cavargli di bocca una risposta soddisfacente.—La popolazione,—mi ricordo che disse—non si può sapere esattamente quanta sia.—Ma press’a poco, gli fu osservato.—Ma è anche difficile il saperlo presso a poco,—rispose. Poi fecero a noi altre domande. V’è piaciuta la città d’Alkazar? Che ne dite del paese? L’acqua è buona, non è vero? Stareste volentieri nel Marocco? Perchè non avete condotte con voi le vostre donne? Quanti soldati può avere ai suoi ordini il capitano dell’esercito che è con voi? Quanto è grande il bastimento che comanda il capitano di marina? Facendo questi discorsi, bevettero il tè, e dopo molti inchini e strette di mano ed augurii, rimontarono a cavallo, diedero di sprone e disparvero. E dico sempre pensatamente disparvero, invece di se ne andarono, come dico apparire per giungere, perchè non vedendo mai da nessuna parte nè un villaggio nè una casa, tutti coloro che arrivavano e partivano ci facevano l’effetto di gente che uscisse di sotto terra e si dileguasse nell’aria. Quella, come tutte le altre giornate, fu chiusa da un tramonto splendido e quieto, e da un desinare rumorosamente allegro. Ma la notte fu una delle più agitate del viaggio. Forse perchè la terra dei Seffiàn richiedeva che l’ambasciata fosse guardata con maggiore cautela che altrove, le sentinelle notturne si tennero reciprocamente sveglie cantando di quarto d’ora in quarto d’ora dei versetti del Corano. Una intonava la preghiera, tutte le altre rispondevano in coro, ad alta voce, accompagnate dai nitriti dei cavalli e dal latrato dei cani. Appena addormentati, ci svegliammo e non ci riuscì più di chiuder occhio. Per giunta, poco dopo la mezzanotte, in uno di quegli intervalli di silenzio, tuonò improvvisamente in mezzo alla campagna una voce squarciata e selvaggia che non tacque più fino all’alba. A momenti s’avvicinava, a momenti si sentiva appena, poi tornava a risonare più vicina, in tono di minaccia, di lamento, di disperazione, e prorompeva di tratto in tratto in grida acutissime e in risa sgangherate, che mettevan freddo nelle vene. Era il Santo che errava intorno all’accampamento, chiamando sopra di noi la maledizione di Dio. La mattina, quando uscimmo dalla tenda, era ancora ritto come uno spettro davanti alla sua cuba solitaria, colorata di rosa dai primi raggi del sole, e continuava a maledirci con voce roca, agitando le braccia spossate al disopra del capo. Io cercai il cuoco per dimandargli che cosa pensasse di quel personaggio. Ma lo trovai tanto affaccendato, che non ebbi cuore di scherzare. Stava facendo il caffè e aveva intorno una folla impaziente che gli toglieva il respiro. Gli sguatteri gli parlavano arabo, il Ranni siciliano, il calafato napoletano, Hamed spagnuolo, il signor Vincent francese.—Ma se i ’v capisso nen, facie da forca!—gridava lui disperato.—Ma questa è una Babilonia! Ma lasciatemi respirare! Volete

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Argomenti: due ore,    città capitale,    figlio maggiore,    giuramento solenne,    uomo violento

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