Marocco di Edmondo De Amicis pagina 22

Testo di pubblico dominio

ordine. In capo a pochi minuti ci trovammo davanti all’imboccatura d’una gola formata da alcune piccole colline, sulle quali s’alzava qualche capannuccia di stoppia. Alcuni arabi cenciosi, uomini e donne, ci guardavano curiosamente di dietro alle siepi. Entrammo nella gola; in quel momento apparve il sole. A un certo punto la gola faceva un gomito quasi ad angolo retto. Svoltammo..., e ci trovammo davanti a uno spettacolo stupendo. Trecento cavalieri, vestiti di mille colori, sparpagliati in un grandioso disordine, ci venivan incontro a briglia sciolta coi fucili nel pugno, come se si slanciassero all’assalto d’un reggimento. Era la scorta della provincia di Laracce, preceduta dal governatore e dai suoi ufficiali, che veniva a dare il cambio alla scorta di Had-el-Garbia, la quale doveva lasciarci sul confine della provincia di Tangeri, dove appunto eravamo arrivati. Il Governatore di Laracce, un vecchio prestante con gran barba bianca, arrestò con un cenno i suoi cavalieri, strinse la mano all’ambasciatore e poi, voltatosi un’altra volta verso quella turba fremente d’impazienza, fece un gesto vigoroso come per dire:—Scatenatevi!— Allora cominciò uno dei più splendidi lab el barode (giuochi colla polvere) che noi potessimo desiderare. Si slanciavano alla carica a due, a dieci insieme, a uno a uno, in fondo alla valle, sulle colline, davanti e ai fianchi della carovana, nella direzione del nostro cammino e in direzione contraria, sparando e urlando senza posa. In pochi minuti la valle fu piena di fumo e d’odor di polvere come un campo di battaglia. Da ogni parte turbinavano cavalli, lampeggiavano fucili, sventolavano caic, svolazzavano cappe, ondeggiavano caffettani rossi, gialli, verdi, azzurri, ranciati; scintillavano sciabole e pugnali. Ci passavano accanto ad uno ad uno, come fantasmi alati, vecchi, giovanetti, uomini di forme colossali, figure strane e terribili, ritti sulle staffe, colla testa alta, coi capelli al vento, col fucile disteso; e ognuno, sparando, lanciava un grido selvaggio che gl’interpreti ci traducevano.—Guai a te!—Madre mia!—In nome di Dio!—T’uccido!—Sei morto!—Son vendicato!—Altri dedicavano il loro colpo a qualcuno.—Al mio padrone!—Al mio cavallo!—Ai miei morti!—Alla mia amante!—Sparavano in alto, in terra, indietro, chinandosi e rovesciandosi come se fossero legati alle selle. Ad alcuni cadeva in terra il caic o il turbante; tornavano indietro di carriera, e lo raccoglievano, passando, colla punta del fucile. Parecchi roteavano l’arma al di sopra del capo, la buttavano in aria e la riafferravano con una mano. Eran gesti convulsi, atteggiamenti temerari, urli e sguardi di gente inebbriata che rischiasse la vita con una gioia furiosa. Molti slanciavano il cavallo come se si volessero uccidere; volavano, sparivano e non tornavano che lungo tempo dopo colla faccia stravolta e pallida di chi ha visto in faccia la morte. I più dei cavalli grondavano sangue dal ventre; i cavalieri avevano i piedi, le staffe, l’estremità delle cappe macchiate di sangue. Alcune figure, in quella moltitudine, mi rimasero impresse fin dal primo momento. Fra gli altri un giovane con una testa ciclopica, un par di spalle smisurate ed un ventre enorme, che portava un caffettano color di rosa, e gettava delle grida che parevan ruggiti d’un leone ferito;—un ragazzo d’una quindicina d’anni, bello, scapigliato, tutto bianco, che mi passò tre volte dinanzi, gridando:—Dio mio! Dio mio!—; un vecchio lungo ed ossuto, un viso di malaugurio, che volava cogli occhi socchiusi e un sorriso satanico sulle labbra, come se portasse in groppa la peste;—un nero, tutt’occhi e tutto denti, con una mostruosa cicatrice a traverso la fronte, che passava dibattendosi furiosamente sopra la sella, come per liberarsi dalla stretta d’una mano invisibile. Facendo questo, accompagnavano tutti la marcia della carovana, salivano e scendevano dalle alture, si raggruppavano, si disperdevano, formavano e disfacevano rapidamente ogni sorta di combinazioni di colori, che abbagliavan gli occhi come lo sventolìo di una miriade di bandiere. Tutta questa gente, questo movimento vertiginoso, questo strepito, scoppiato inaspettatamente, all’apparire del sole, in quella gola angusta dove lo spettacolo si presentava tutto insieme allo sguardo come dentro a un anfiteatro, ci colpì d’un tale stupore che per un pezzo nessuno aprì bocca, e le prime parole furono poi un’esclamazione unanime e calorosa:—È bello! È bello! È bello! A poca distanza dall’uscita della gola l’Ambasciatore si fermò, e tutti scendemmo a terra per riposarci all’ombra d’un gruppo d’olivi. La scorta della provincia di Laracce continuò le sue cariche e i suoi fuochi davanti a noi. Il convoglio dei bagagli seguitò la sua strada verso il luogo fissato per l’accampamento. Eravamo arrivati alla Cuba di Sidi-Liamani. Nel Marocco si chiama Cuba, che significa cupola, una piccola cappella quadrata, coperta d’una cupola semisferica, nella quale è seppellito un santo. Queste Cube, frequentissime particolarmente nel mezzogiorno dell’Impero, poste la maggior parte in luoghi eminenti presso una sorgente e una palma, e visibili, per la loro nivea bianchezza, a grande distanza, servono di guida ai viaggiatori, vengon visitate dai fedeli e sono per lo più custodite da un discendente del Santo, erede della santità, il quale abita una casuccia vicina alla tomba e vive dell’elemosina dei pellegrini. La Cuba di Sidi-Lamani era posta sopra una piccola altura, a pochi passi da noi. Alcuni arabi della campagna stavan seduti dinanzi alla porta. Dietro a loro spuntava la testa del vecchio decrepito—il Santo—che ci guardava con una stupida meraviglia. In pochi minuti divamparono i fuochi della cucina, e di lì a poco si fece colezione. Una scatola di sardine, vuota, buttata via dal cuoco, fu raccolta dagli arabi, portata dinanzi alla porta della Cuba e fatta oggetto d’un lungo esame e di conversazioni animate. Finito il lab el barode, quasi tutti i cavalieri della scorta, scesi a terra, si sparpagliarono per la piccola valle, parte per far pascolare i cavalli, parte per riposare. Alcuni, rimasti in sella, stettero di vedetta sulle alture. In quel frattempo, passeggiando col capitano, osservai per la prima volta, colla scorta delle sue indicazioni, i cavalli marocchini. Sono tutti di piccola statura, tanto che tornato in Europa, coll’occhio abituato alle loro forme, i cavalli europei, anche di statura mezzana, mi parvero, sulle prime, enormi. Hanno l’occhio vivo, la fronte un po’ schiacciata, le narici molto aperte, le ossa zigomatiche molto sporgenti, la testa quasi tutti bellissima; lo stinco e la tibia un po’ curvi, ciò che dà loro una particolare elasticità di movimenti; la groppa manchevole, fuggente, per così dire, di sotto alla sella, il che li rende più abili al galoppo che al trotto; e non mi ricordo infatti d’aver mai visto andar di trotto un cavaliere marocchino. Visti quando riposano e quando vanno di passo, anco i più belli, non danno nell’occhio; slanciati alla corsa, si trasfigurano e riescon superbi animali. Benchè si nutriscano assai meno dei nostri e siano bardati assai più pesantemente, reggono alla fatica più dei nostri. Anche il modo di cavalcare è diverso. Le staffe sono tenute molto alte; il cavaliere sta sulla sella colle gambe piegate quasi ad angolo retto, tiene le redini lunghe e dirige il cavallo con movimenti larghissimi. La sella ha quei due rilievi, chiamati da noi con termine tecnico il pomo e la paletta, altissimi, che toccano il petto e la schiena del cavaliere, e lo ritengono in maniera da rendergli molto difficile la caduta. La maggior parte dei cavalieri, calzati di piccoli stivali di cuoio giallo senza talloni, non portano sproni e pungono il cavallo colla staffa; gli altri hanno per sproni due piccoli ferri acuminati, della forma d’un pugnale, fissati al calcagno con un

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Argomenti: lungo tempo,    grido selvaggio,    pezzo nessuno,    gesto vigoroso,    sorriso satanico

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