Marocco di Edmondo De Amicis pagina 64

Testo di pubblico dominio

parlai di leggi, di governo, di libertà, e cose simili; e siccome era un uomo perspicace, mi parve d’esser riuscito, se non a fargli capire tutta la differenza che, sotto questi aspetti, corre fra il suo paese e il nostro; almeno a fargliene brillare alla mente un barlume. Visto che non poteva tenermi fronte su quel soggetto cangiò improvvisamente il discorso, e guardandomi da capo a piedi, disse sorridendo: —Mal vestidos. (Mal vestiti). Gli risposi che il vestito importava poco, e gli domandai se non riconosceva la nostra superiorità anche in questo, che, invece di star tante ore oziosi colle gambe incrociate sopra una materassa, noi impieghiamo il tempo in mille maniere utili e divertenti. Mi diede una risposta più sottile che non m’aspettassi. Disse che non gli pareva buon segno questo aver bisogno di far tante cose per passare il tempo. La vita per sè sola è dunque un supplizio per noi, che non possiamo stare un’ora senza far nulla, senza distrarci, senza affannarci a cercare divertimenti? Abbiamo paura di noi stessi? Abbiamo qualche cosa dentro che ci tormenta? —Ma vedete,—dissi—che spettacolo triste presentano le vostre città, che solitudine, che silenzio, che miseria. Siete stato a Parigi? Paragonate un po’ le strade di Parigi colle strade di Fez. Qui fu sublime. Saltò in piedi ridendo, e più coi gesti che colle parole fece una descrizione canzonatoria dello spettacolo che presentano le strade delle nostre città. Va, vieni, corri; carri di qui, carrette di là; un rumore che stordisce, gli ubbriachi che barcollano, i signori che si abbottonano il soprabito per paura dei borsaiuoli; a ogni passo una guardia che guarda intorno come se a ogni passo ci fosse un ladro; i bambini e i vecchi che ogni momento corron rischio d’essere schiacciati dalle carrozze dei ricchi; le donne sfrontate, e persino bambine, orrore! che lanciano occhiate provocanti, urtano i giovani col gomito e fanno mille smancerie; tutti col sigaro in bocca; da ogni parte gente che entra nelle botteghe a mangiucchiare, a ber liquori, a farsi lisciare i capelli, a specchiarsi, a inguantarsi; e i zerbinotti piantati davanti ai caffè che dicono delle parole nell’orecchio alle donne degli altri che passano; e che maniera ridicola di salutare e di camminare in punta di piedi, dondolandosi, saltellando; e poi, Dio buono, che curiosità di femminuccie!—E toccando questo tasto pigliò la stizza e disse che un giorno, in una piccola città d’Italia, essendo uscito vestito da moro, si radunò in un momento una gran folla, e tutti gli correvano dietro e davanti gridando e ridendo, e quasi non lo lasciavano camminare, tanto ch’egli dovette ritornare alla locanda e cangiar vestito.—Ed è così che si fa nei vostri paesi? mi domandò.—Che si faccia qui, si capisce, perchè non si vedon mai dei cristiani; ma nei vostri paesi dove si sa come siamo vestiti, perchè ci sono i quadri, e mandate qui i pittori colle macchine e coi colori a farci i ritratti; fra voi che sapete tutto non vi pare che non dovrebbero accadere queste cose? Fatto questo sfogo, mi sorrise cortesemente come per dire:—Ciò non toglie che noi due siamo amici. Cadde poi il discorso sulle industrie europee, sulle strade ferrate, sul telegrafo, sulle grandi opere d’utilità pubblica; e di questo mi lasciò parlare senza interrompermi, assentendo anzi, di tratto in tratto, con un cenno del capo. Quand’ebbi finito, però, mise un sospiro e disse:—Infine poi... a che servono tante cose se dobbiamo tutti morire? —Insomma,—conclusi,—voi non cangereste il vostro stato col nostro! Stette un po’ pensando e rispose: —No, perchè voi non vivete più di noi, nè siete più sani, nè più buoni, nè più religiosi, nè più contenti. Lasciateci dunque in pace. Non vogliate che tutti vivano a modo vostro e sian felici come volete voi. Rimaniamo tutti nel cerchio che Allà ci ha segnato. Con qualche fine Allà ha disteso il mare fra l’Africa e l’Europa. Rispettiamo i suoi decreti. —E credete,—domandai,—che rimarrete sempre quello che siete? che a poco a poco non vi faremo cangiare? —Non lo so,—rispose.—Voi avete la forza, voi farete ciò che vorrete. Tutto quello che deve accadere, è già scritto. Ma qualunque cosa accada, Allà non abbandonerà i suoi fedeli. Ciò detto, mi prese la destra, se la strinse sul cuore e se n’andò a passi maestosi. * * * Stamattina, al levar del sole, sono stato a vedere la rassegna del presidio di Fez, che il Sultano fa tre volte la settimana, nella piazza dove ricevette solennemente l’Ambasciata. Uscendo dalla porta della Nicchia del burro, ebbi un primo saggio delle manovre dell’artiglieria. Uno stuolo di soldati, vecchi, di mezza età e ragazzi, tutti vestiti di rosso, correvano dietro a un cannoncino tirato da una mula. Era uno dei dodici cannoni di campagna che il governo spagnuolo regalò al Sultano Sid-Mohammed dopo la guerra del 1860. Di tratto in tratto la mula scivolava o deviava o s’arrestava, e tutta quella ragazzaglia si metteva a urlare e a picchiare, ballando e sghignazzando, come se conducesse un carro da carnevale. In un tragitto di cento passi, si saranno fermati dieci volte. Ogni momento seguiva un’avaria: ora cadeva il secchiolino, ora lo scovolo, ora non so che altro; poichè tutto era appeso all’affusto. La mula andava innanzi a zig zag, a suo capriccio, o piuttosto dove la spingeva il cannone scendendo impetuosamente dai rialti del terreno; tutti davano ordini, nessuno obbediva; i grandi scappellottavano i piccoli, i piccoli scappellottavano i piccolissimi, e questi si scappellottavano fra loro; e il cannone rimaneva presso a poco allo stesso posto. Era una scena che avrebbe messo la febbre terzana al generale Lamarmora. Sulla riva sinistra del Fiume delle perle, v’erano circa due mila soldati di fanteria, parte sdraiati per terra, parte ritti in crocchi. Nella piazza, chiusa tra il fiume e le mura, tirava al bersaglio l’artiglieria; quattro cannoni, dietro ai quali stava un gruppo di soldati, e ritta in mezzo a loro una figura alta e bianca,—il Sultano,—di cui però, dal luogo dov’ero, discernevo appena i contorni. Mi parve che di tratto in tratto parlasse agli artiglieri in atto di dar consigli. Dalla parte opposta della piazza, vicino al ponte, v’era un gruppo di mori, d’arabi, di neri, uomini e donne, gente di città e gente di campagna, signori e pezzenti, tutti stretti in un gruppo, che aspettavano, mi fu detto, d’esser chiamati ad uno ad uno dinanzi al Sultano, a cui dovevano chieder favori o giustizia; poichè il Sultano dà udienza tre volte la settimana a chiunque faccia domanda di parlargli. Parte di quella povera gente era forse venuta da città o da terre lontane a lagnarsi delle angherie dei governatori o a domandar grazia per i loro parenti sepolti in un carcere. V’erano donne cenciose e vecchi cadenti; tutti visi stanchi e tristi, su cui si leggeva il desiderio impaziente e insieme la paura di dover comparire dinanzi al Principe dei Credenti, al giudice supremo, che avrebbe in pochi momenti, con poche parole, deciso forse della sorte di tutta la loro vita. Non mi parve che avessero nulla nelle mani o ai loro piedi, e per questo credo che il Sultano regnante abbia tolto l’uso, che c’era altre volte, di accompagnare ogni domanda con un regalo; il quale non veniva sdegnato, qualunque fosse, ed era qualche volta un paio di polli o una dozzina d’ova. Girai in mezzo ai soldati. I ragazzi erano divisi in gruppi di trenta o quaranta e si divertivano a inseguirsi o a saltarsi gli uni gli altri, appoggiandosi le mani sulle spalle. In alcuni gruppi però il divertimento consisteva in una specie di pantomima, che, appena ne capii il significato, mi fece rabbrividire. Rappresentavano l’amputazione delle mani, il taglio della testa col coltello ed altri supplizi ai quali probabilmente avevano assistito parecchie volte. Un ragazzo faceva da caid, uno da boia, uno da vittima;

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Argomenti: spettacolo triste,    febbre terzana,    udienza tre,    desiderio impaziente

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