Marocco di Edmondo De Amicis pagina 33

Testo di pubblico dominio

i cavalli, pigliandoli per alberi, non si spaventino. I cavalli sono la preda più ghiotta. Vi si attaccano al collo, stendono le gambe sotto il ventre, e via come saette. La loro audacia è incredibile. Non c’è accampamento di carovana, sia anche d’un pascià o d’un’ambasciata, dove non penetrino, malgrado la più oculata sorveglianza. Strisciano, guizzano, si schiacciano contro terra, coperti d’erba, di paglia, di foglie, vestiti di pelli di montone, in apparenza d’accattoni, di malati, di pazzi, di soldati, di santi. Rischian la vita per un pollo, fanno dieci miglia per uno scudo. Giunsero persino a rubare dei sacchetti di denaro sotto il capo ad ambasciatori che dormivano. E appunto quella notte, malgrado la catena delle sentinelle, rubarono un montone legato al letto del cuoco, il quale, accortosi la mattina del furto, stette una mezz’ora immobile davanti alla tenda, colle braccia incrociate, e lo sguardo fisso all’orizzonte, esclamando di tratto in tratto:—Ah! madona santa, che pais! che pais! che pais! Ho nominato i duar: non si può parlare del Marocco senza descriverli, e lo posso fare ampiamente con quello che vidi, e quello che ne seppi dal signor Morteo, il quale ci vive in mezzo da vent’anni. Questo signor Morteo, fra parentesi, è un singolare stampo d’uomo. Genovese di nascita, ancora giovane, marito d’una bella inglese, padre di due bambini vezzosissimi e ricco da poter vivere splendidamente in qualunque città d’Europa, se ne sta invece, relegato volontario, a Mazagan, piccola città posta sulla riva dell’Atlantico, a duecento chilometri da Marocco, in mezzo agli arabi e ai mori, non occupato d’altro che della sua famiglia e del suo commercio, non vedendo, per mesi e mesi, la faccia d’un europeo, e non serbando col mondo civile altra relazione che quella d’abbonato a due giornali illustrati. Di tempo in tempo viene a fare un giro in Italia o in Francia, ma vi s’annoia appena arrivato, e dai palchetti della Scala e del Grand-Opéra sospira la sua casetta moresca bagnata dalle onde dell’oceano, i suoi armenti, i suoi duar, la vita ignorata e tranquilla della sua seconda patria affricana. In quel paese, dove, non è molto, un agente consolare di Francia, preso da una malinconia disperata, diventò pazzo, e un altro cercò di seppellirsi vivo nelle sabbie della marina; egli non ha mai avuto un giorno di spleen. Parla l’arabo, mangia all’araba, vive tra gli arabi, li studia, li ama, li difende; ha contratto qualcuno dei loro difetti e parecchie delle loro buone qualità; non ha più d’europeo, insomma, che la famiglia, il vestito e la pronuncia genovese. Contuttociò, egli non avrebbe potuto mostrarsi più amabilmente italiano di quel che fece dal primo all’ultimo giorno del viaggio. Interprete, intendente, guida, compagno, riuscì caro ed utile a tutti, e nessuno dissentì mai da lui che sopra un punto: noi auguravamo al Marocco la civiltà; egli sosteneva che la civiltà avrebbe reso quel popolo due volte più tristo e quattro volte più infelice; e bisogna confessare che, sebbene avesse torto, s’era qualche volta tentati di dargli ragione. Il duar è formato ordinariamente da dieci, quindici o venti famiglie, che per lo più son legate fra loro da un vincolo di parentela; e ogni famiglia ha una tenda. Le tende sono disposte in due ordini paralleli, distanti una trentina di passi l’uno dall’altro, in modo che formano nel mezzo una specie di piazzetta rettangolare, aperta alle due estremità. Queste tende sono quasi tutte eguali. Consistono in un gran pezzo di stoffa nera o color di cioccolatte, tessuta con fibre di palme nane o con pelo di capra e di cammello; la quale è sostenuta da due pali o due grosse canne, unite insieme da una traversa di legno, che regge il tetto. La loro forma è ancora quella delle abitazioni dei Numidi di Giugurta, che il Sallustio paragonava a una nave rovesciata colla carena in alto. Nell’inverno e nell’autunno, la tela è distesa fino a terra e fissata per mezzo di corde a pioli, in maniera che non v’entri nè vento nè acqua. In estate, è lasciata tutt’intorno una larga apertura per la circolazione dell’aria, protetta da una piccola siepe di giunchi, di canne o di rovi secchi. Con questo mezzo, le tende sono più fresche in estate e meglio chiuse nella stagione piovosa, che le stesse case moresche delle città, le quali non hanno nè usci nè vetrate. L’altezza massima d’una tenda è di due metri e mezzo; la massima lunghezza di dieci; quelle che superano questa misura appartengono a qualche sceicco opulento, e son rare. Una parete di giunchi divide la casetta in due parti: di qua dormono il padre e la madre, di là i figliuoli e il rimanente della famiglia. Una o due stuoie di vimini, un cassone di legno variopinto e arabescato, in cui tengono la roba; uno specchietto rotondo di Trieste o di Venezia, un alto treppiedi di canna, che ricoprono d’un caic, per lavarvisi sotto; due pietre per macinare il grano, un telaio della forma di quei dei tempi d’Abramo, un rozzo lume di latta, qualche vaso di terra, qualche pelle di capra, qualche piatto, una rocca, una sella, un fucile, un pugnalaccio, sono tutta la suppellettile d’una di queste case. In un angolo v’è una chioccia e una covata di pulcini; davanti all’entrata un fornello, formato di due mattoni; da un lato della tenda un piccolo orto; più in là alcuni fossi rotondi, rivestiti di pietre o di cemento, nei quali conservano il grano. In quasi tutti i grandi duar v’è una tenda appartata dove sta il maestro di scuola, al quale il duar dà cinque lire il mese, oltre a molte provvigioni di viveri. Tutti i ragazzi vanno là a ripetere centomila volte gli stessi versetti del Corano, e a scriverli, quando li sanno a mente, sopra una tavola di legno. La maggior parte, lasciando la scuola prima di saper leggere, per andar a lavorare coi genitori, dimenticano in breve tempo il poco che hanno imparato. I pochissimi che hanno volontà e modo di studiare, continuano fino a vent’anni, per andar poi a compiere gli studi in una città, e diventare taleb, che significa scrivano o notaro, ed equivale a prete, poichè è una cosa sola, presso i Maomettani, la legge religiosa e la civile. La vita che si fa in questi duar è semplicissima. All’alba, tutti si levano, dicono le loro preghiere, mungono le vacche, fanno il burro, e bevono il latte agro che ne rimane. Per bere si servono di gusci di conchiglie e di patelle che comprano dalle popolazioni della costa. Poi gli uomini vanno a lavorare alla campagna, e non tornan più che verso sera. Le donne vanno a pigliar acqua e a cercar legna, macinano il grano, tessono le rozze stoffe di cui si vestono esse e i loro uomini, fanno le corde delle tende con fibre di palma nana, mandano da mangiare ai mariti, e preparano il cuscussù per la sera. Il cuscussù è mescolato con fave, zucche, cipolle e altri erbaggi; qualchevolta inzuccherato, pepato e condito con sugo di carne; nei giorni di scialo, mangiato con carne. Tornati gli uomini, cenano e per lo più, al tramonto del sole, vanno a dormire. Qualche volta, dopo cena, un vecchio racconta una storia in mezzo a una corona di parenti. Durante la notte il duar rimane immerso nel silenzio e nelle tenebre: solo qualche famiglia tiene davanti alla tenda un lumicino acceso, che serve di richiamo ai viaggiatori smarriti.—Il vestire degli uomini e delle donne non è che una camicia di tela di cotone, una cappa e un caic grossolano. Le cappe e i caic non li lavano che tre o quattro volte l’anno, in occasione delle feste solenni, per cui son quasi sempre del colore della loro pelle o più neri. La pulizia del corpo è più curata, poichè senza far le abluzioni prescritte dal Corano, non potrebbero pregare. Le donne per di più si lavano ogni mattina tutta la persona, nascondendosi sotto il treppiedi coperto col caic. Ma lavorando come fanno, e dormendo come dormono, son sempre sudici a un modo,

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Argomenti: breve tempo,    sguardo fisso,    singolare stampo,    popolo due,    legno variopinto

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