Marocco di Edmondo De Amicis pagina 55

Testo di pubblico dominio

purchè fossi sicuro di morire libero in Spagna. Questa che meniamo qui non è vita. Siamo come in mezzo a un deserto. È una cosa che sgomenta. Tutti ci disprezzano. La nostra stessa famiglia non è nostra, perchè i figliuoli non ci amano e sono incitati da tutti ad odiarci. E poi non si dimentica mai la religione in cui s’è nati, le chiese dove nostra madre ci condusse a pregare, i suoi consigli, il tempo più bello della nostra vita... e queste memorie.... siamo rinnegati, siamo galeotti, è vero; ma infine siam sempre uomini... queste memorie ci straziano l’anima!—Dicendo questo, piangeva. * * * La pioggia che vien giù dirottamente da quasi tre giorni, ha ridotta Fez in uno stato che, a descriverlo, c’è da non esser creduti. Non è più una città, è un’immensa cloaca. Le strade son gore; i crocicchi, laghi; le piazze, paludi; la gente a piedi sprofonda nella melma fino a mezzo lo stinco; le case sono impillaccherate fin sopra le porte; uomini, cavalli, muli, par che si siano ravvoltolati nel fango, e i cani ne sono addirittura vestiti in modo che non mostran più un pelo. Non si vede che pochissima gente, la maggior parte a cavallo; e non un ombrello, ma neppure alcuno che affretti il passo per non pigliare la pioggia. Fuori del quartiere dei bazar, tutto è deserto e oscuro che stringe il cuore. Per tutto acqua che corre, precipita e ringorga, travolgendo ogni sorta di putridumi, e non una voce, non un rumore umano che rompa la monotonia di quello strepito assordante. Pare una città abbandonata dagli abitanti nel momento d’una inondazione. Dopo una passeggiata d’un’ora, son tornato a casa pieno di malinconia, e ho passato parecchie ore nella mia stanza, col viso all’inferriata e gli occhi fissi su gli alberi sgocciolanti del giardino, pensando a un povero corriere che forse in quei momenti passava a nuoto, a rischio della vita, il Sebù ingrossato, stringendo fra i denti una borsa di cuoio con dentro una lettera di mia madre. * * * Chi dice e chi nega che sia stata fatta in questi giorni un’esecuzione capitale davanti a una porta di Fez. Nessuna testa però fu vista spenzolare dalle mura ed io preferisco credere che la notizia sia falsa. La descrizione, che io lessi, d’una esecuzione capitale fatta a Tangeri anni sono, mi tolse la barbara curiosità, che mi solleticò qualche volta, di assistere a uno di questi spettacoli. L’inglese Drummond Hay, uscendo una mattina da una porta di Tangeri, vide un drappello di soldati che trascinavano verso il macello degli ebrei due prigionieri legati per le braccia e per la vita. Uno era un montanaro del Rif, antico giardiniere d’un europeo domiciliato a Tangeri; l’altro un bel giovane, d’alta statura, di fisonomia aperta e simpatica. L’inglese domandò al capo dei soldati che delitto avessero commesso quei due disgraziati. —Il Sultano,—rispose,—che Dio prolunghi i suoi giorni! ha ordinato di tagliar loro la testa perchè facevano commercio di contrabbando sulla costa del Rif cogl’infedeli Spagnuoli. —È un castigo ben severo per una simile colpa,—osservò l’inglese;—e se il loro supplizio deve servire d’avvertimento e d’esempio, perchè è stato proibito agli abitanti di Tangeri d’assistervi? (Le porte della città erano state chiuse. Drummond Hay s’era fatto aprire dando una mancia a un custode). —Non ragionate con me, Nazareno!—rispose l’ufficiale;—ho ricevuto un ordine, debbo ubbidire. La decapitazione doveva farsi nel macello degli ebrei. Un moro d’aspetto volgare e perverso, vestito da macellaio, stava là ad aspettare i condannati. Aveva in mano un piccolo coltello lungo circa sei pollici. Era il carnefice. Straniero alla città, egli s’era offerto a quell’opera perchè i macellai maomettani di Tangeri, che sono ordinariamente incaricati delle esecuzioni capitali, s’erano rifugiati in una moschea. Nacque un alterco fra i soldati e il carnefice a cagione della ricompensa promessa a costui per la decapitazione dei due infelici, i quali, ritti in disparte, eran costretti a sentir disputare sul prezzo del loro sangue. Il carnefice insisteva, dicendo ch’egli aveva pattuito venti lire per una sola testa e che glien’erano dovute altre venti per l’altra. L’ufficiale finì per acconsentire di mala grazia. Allora il macellaio afferrò il primo condannato, già mezzo morto di terrore, lo gettò a terra, gli s’inginocchiò sul petto e gli mise il coltello alla gola. Drummond Hay torse il viso. Gli parve che seguisse una lotta violenta. Il carnefice gridava:—Datemi un altro coltello; il mio non taglia!—Il condannato giaceva in terra supino colla gola mezz’aperta, il petto ansante, tutte le membra contratte. Fu dato un altro coltello al carnefice e la testa venne spiccata dal busto. I soldati gridarono con voce fioca:—Dio prolunghi la vita del nostro signore e padrone!—Ma parecchi di essi parevano istupiditi dal terrore. Venne innanzi l’altra vittima. Era il giovane bello e simpatico. Il suo sangue fu argomento d’un altro alterco. L’ufficiale, rinnegando la sua parola, disse che non avrebbe pagato che venti lire per tutt’e due le teste. Il carnefice dovette rassegnarsi. Il condannato domandò che gli fossero sciolte le mani. Sciolto che fu, si tolse la cappa, e porgendola al soldato che gli aveva tolto la corda, gli disse:—Accettate questo; ci rivedremo in un mondo migliore!—Gettò il suo turbante a un altro, che lo aveva guardato con aria di pietà, e dirigendosi a passo fermo dove era disteso il cadavere insanguinato del compagno, esclamò con voce chiara e sicura:—Non c’è altro Dio che Dio e Maometto è il suo profeta!—Voltandosi poi verso il carnefice, si tolse la cintura e gliela porse dicendo:—Prendete! Ma per l’amor di Dio tagliatemi la testa più presto di quello che avete fatto al mio fratello.—Si distese per terra, nel sangue, e il carnefice gli mise il ginocchio sul petto. —Un contrordine! fermate!—gridò l’inglese. Un cavaliere s’avanzava a briglia sciolta. Il carnefice tenne il coltello sospeso. —Non è che il figliuolo del Governatore,—disse un soldato.—Egli viene a vedere l’esecuzione. Aspettatelo. Così era infatti. Poco dopo le due teste sanguinose pendevano dalle mani dei soldati. Le porte della città furono aperte e ne uscì una turba di ragazzi che prese il carnefice a sassate e lo inseguì fino a tre miglia dalla città, dove cadde svenuto, tutto coperto di ferite. Il giorno dopo si seppe che era stato ucciso con una fucilata da un parente d’una delle vittime, e sotterrato nel luogo stesso dov’era caduto. Pare che le Autorità di Tangeri non giudicassero opportuno di occuparsi di questo fatto, perchè l’uccisore tornò in città e non fu molestato. Dopo essere state esposte tre giorni, le teste furono mandate al Sultano affinchè sua maestà imperiale riconoscesse la sollecitudine colla quale erano stati eseguiti i suoi ordini. I soldati che le portavano incontrarono per via il corriere che recava la grazia, il quale era stato arrestato dalla cresciuta improvvisa d’un fiume. * * * Trovo sovente dei negozianti di Fez che son stati in Italia. Ce ne vanno ogni anno da quaranta a cinquanta, e parecchi hanno agenti mori od arabi nelle nostre città principali. Vanno particolarmente nell’alta Italia dove comprano seta greggia, damaschi, coralli, velluti, refe, porcellane, perle, conterie di Venezia, carte da giuoco di Genova e mussolina di Livorno. Di proprio non ci portano che cera e lana, poichè l’industria marocchina è molto ristretta, e si può dir che le stoffe, le armi, le pelli e il vasellame sono i soli prodotti che chiamino l’attenzione d’un Europeo. Le stoffe si fanno principalmente in Fez e in Marocco. Sono caic per donne, turbanti signorili, ciarpe, foulards, tessuti sottilissimi di seta frammisti d’oro e d’argento, per lo più a righe diritte e parallele, bianchi o di colori gentili ed armonici, bellissimi a primo aspetto, ma

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Argomenti: due teste,    casa pieno,    maestà imperiale,    rumore umano,    povero corriere

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