Marocco di Edmondo De Amicis pagina 20

Testo di pubblico dominio

abitudini europee. Beveva vino, fumava sigaretti, portava calze, leggeva romanzi, raccontava le sue avventure amorose. La ragione principale che lo conduceva a Fez era un credito ch’egli aveva col Governo, e sperava, coi buoni uffici dell’ambasciatore, di farsi pagare. Aveva portato con sè la sua tenda, i servi, le mule. I suoi occhi lasciavan capire che, se avesse potuto, avrebbe portato anche le sue donne; ma su quest’argomento serbava il più rigoroso silenzio. Le donne di cui parlava, raccontando le sue avventure, erano europee. L’arèm era anche per lui una cosa sacra. Arrischiai, con parole vaghe, una domanda: mi guardò, sorrise pudicamente e non rispose. Dopo desinare, soddisfeci un desiderio vivissimo che avevo già fin prima della partenza da Tangeri; feci un’escursione notturna per l’accampamento. Fu uno dei più bei divertimenti ch’io abbia avuti nel viaggio. Aspettai che tutti fossero entrati nelle tende; mi ravvolsi in una cappa bianca del comandante ed uscii in cerca d’avventure. Il cielo era tutto stellato; le lanterne, fuor che quella appesa in cima all’asta della bandiera, erano spente; in tutto l’accampamento regnava un silenzio profondo. Adagio adagio, cercando di non inciampare nelle cordicelle delle tende, voltai a sinistra. Fatti dieci passi, un suono inaspettato mi ferì l’orecchio. Mi arrestai. Mi parve un suono di chitarra. Veniva da una tenda chiusa, che non avevo mai vista, posta fra la nostra e quella dell’ambasciatore, una trentina di passi fuori del cerchio dell’accampamento. Mi avvicinai e tesi l’orecchio. La chitarra accompagnava un filo di voce dolcissima che cantava una canzone araba piena di malinconia. Di chi era quella tenda misteriosa? Che ci fosse dentro una donna? Feci un giro intorno. La tenda era chiusa da ogni parte. Mi stesi in terra per guardare per disotto; chinandomi, tossii; il canto cessò. Quasi nello stesso punto una voce soave, vicinissima a me, domandò:—Quien es? (Chi è?)—Allà mi protegga!—pensai—qui c’è una donna.—Un curioso!—risposi coll’inflessione più patetica della mia voce.... Una risata mi fece eco, e una voce maschile disse in spagnuolo:—Bravo! venga a prendere una tazza di tè!—Era la voce di Mohammed Ducali. Oh delusione! Ma fui subito compensato. S’aperse una porticina e mi trovai sotto una bellissima tenda, rivestita d’una ricca stoffa a fiorami, ornata di finestrine ad arco, rischiarata da una lanterna moresca, profumata di belgiuino, degna per ogni verso di ospitare la più bella odalisca del Sultano. Accanto al Ducali, sdraiato voluttuosamente sopra un tappeto di Rabat, col capo appoggiato sopra un ricco cuscino, stava seduto un suo servo, un giovane arabo d’aspetto gentile e pensieroso, che teneva fra le mani una chitarra. Era lui che cantava. Nel mezzo c’era un vassoio con un bel servizio da tè, da una parte fumava un profumiere. Spiegai al Ducali in che maniera fossi capitato vicino alla sua tenda, rise, mi offerse una tazza, mi fece sonare un’arietta, mi augurò buon viaggio, ed uscii. La tenda si richiuse e mi ritrovai nell’oscurità silenziosa dell’accampamento. Girai intorno a un’altra tenda, dove dormivano gli altri servi del Ducali, e mi rivolsi verso quella dell’ambasciatore. Davanti alla porta dormiva Selam, disteso sulla sua cappa turchina, colla sciabola vicino al capo.—Se lo sveglio, e non mi riconosce subito,—pensai—m’accoppa! Usiamo prudenza.—M’avvicinai in punta di piedi e misi il capo dentro la tenda. La tenda era divisa in due parti da una ricca cortina: di qua serviva di sala da ricevimento, e v’era un tavolino con tappeto, carta, calamaio, e alcune poltrone dorate; di là dormivano l’ambasciatore e il suo amico ex-ministro di Spagna. Pensai di lasciare il biglietto di visita sul tavolino. M’avvicinai. Un maledetto grugnito mi arrestò. Era Diana, la cagna dell’ambasciatore. Quasi nello stesso punto la voce del padrone domandò:—Chi è? —Un sicario! mormorai. Riconobbe subito la mia voce. —Ferisca—, rispose. Gli spiegai il motivo della mia visita;—ne rise di cuore, e stringendomi la mano al buio, mi augurò buona fortuna. Uscendo inciampai in qualcosa che m’insospettì: accesi un fiammifero: era una tartaruga. Guardai intorno e vidi a due passi da me un rospo enorme, che pareva che mi guardasse. Ebbi per un momento la tentazione di rinunziare all’impresa; ma la curiosità vinse il ribrezzo e tirai innanzi. Arrivai davanti alla tenda dell’Intendente. Mentre mi chinavo per origliare, una figura alta e bianca si alzò fra me e la porta, e disse con accento sepolcrale:—Dorme.—Detti indietro come all’apparizione d’un fantasma. Ma subito mi rincorai. Era un arabo, servo del Morteo da molti anni, che parlava un po’ italiano, e che, malgrado la mia cappa bianca, m’aveva riconosciuto a primo aspetto. Come Selam, egli riposava davanti alla tenda del suo padrone, colla sciabola al fianco. Gli diedi la buona notte e continuai la mia strada. Nella tenda vicina, c’erano il medico e il dracomanno Salomone. Un acuto odore di medicinali l’annunziava a dieci passi all’intorno. V’era il lume acceso. Il dracomanno dormiva; il medico, seduto al tavolino, leggeva. Questo medico, giovane, colto, d’aspetto e di maniere signorili, aveva una particolarità assai curiosa. Nato in Algeri di famiglia francese, vissuto molti anni in Italia, e marito d’una spagnuola, non solo parlava con uguale facilità le lingue dei tre paesi; ma ritraeva egualmente del carattere dei tre popoli, sentiva tre equivalenti amori di patria, era insomma un latino uno e trino, che si sarebbe trovato a casa sua così a Roma, come a Madrid, come a Parigi. Oltre a questo era dotato d’un senso comico finissimo; tanto che senza parlare, senza lasciarsi scorgere, con uno sguardo furtivo, con un leggerissimo movimento delle labbra, rilevava il lato ridicolo d’una persona o d’una cosa in modo da far scoppiare delle risa. Appena mi vide, indovinò la ragione dalla mia presenza, mi offerse un sorso di liquore, e alzando il bicchierino disse sottovoce:—Al felice successo della spedizione!—Coll’aiuto d’Allà!—risposi, e lo lasciai alla sua lettura. Passai davanti alla gran tenda della mensa: era deserta. Voltai a sinistra, uscii dal cerchio dell’accampamento, passai in mezzo a due lunghe file di cavalli addormentati, e mi trovai in mezzo alle tende della scorta. Tesi l’orecchio: sentii il respiro dei soldati che dormivano. Davanti alle tende erano sparpagliati fucili, sciabole, selle, ciarpe, pugnali, caic e la bandiera di Maometto, come sopra il campo d’una mischia. Guardai la campagna: non si vedeva nessuno. Appena apparivano come due macchie nere ed informi i due gruppi di capanne. Tornai indietro, passai in mezzo alla tenda del Console d’America e a quella dei suoi servi, tutt’e due chiuse e silenziose; attraversai il piccolo spazio di terreno dov’era piantata la cucina, e superata una barricata di botti, di tegami, di pentole, di brocche, arrivai alla piccola tenda del cuoco. Con lui dormivano là sotto i due arabi, che gli facevan da sguatteri. Misi la testa dentro:—era buio. Chiamai il cuoco per nome:—Gioanin! Il poveretto, afflitto dalla mala riuscita d’una frittura, e forse anche inquieto per la vicinanza dei due «selvaggi», non dormiva. —A l’è chiel? (È lei?) domandò. —Son io. Tardò qualche momento a rispondere e poi, voltandosi sul letto, esclamò sospirando:—Ah! che pais! —Coraggio,—dissi—, pensate che fra dieci giorni sarete dinanzi alle mura della grande città di Fez. Rispose qualche cosa in confuso di cui non afferrai altro che la parola Moncalieri; dopo di che rispettai il suo dolore, e tirai innanzi. Nella tenda accanto v’erano i due marinai: il Ranni, ordinanza del comandante, e Luigi, calafato a bordo del Dora, napoletano, un giovanetto gentile, sveglio, operoso, che in due giorni s’era cattivata la simpatia di

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Argomenti: due passi,    grande città,    dieci passi,    piccolo spazio,    voce maschile

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