Marocco di Edmondo De Amicis pagina 53

Testo di pubblico dominio

è più stimato dopo che si sa che è stato al Cairo e che ha dipinto la partenza della grande carovana per la Mecca, d’incarico del Vicerè, che gli diede quindicimila scudi. Dicono però che il Vicerè è diventato matto a pagare quindicimila scudi un lavoro in cui, a metter molto, l’artista avrà speso cento lire di colori. Un negoziante domandò al Morteo se l’Ussi dipinge anche i mobili. Ma le più belle toccano al Biseo, che va ogni mattina in Fez nuova a copiare una moschea. Ci va, s’intende, scortato da quattro o cinque soldati armati di bastone. Prima che abbia messo al posto il cavalletto, gli sono intorno trecento persone, e i soldati sono costretti a urlare e a sbracciarsi come dannati per tenergli sgombro dinanzi appena tanto spazio ch’egli possa vedere la moschea. Ben presto però non bastan più nè gli urli nè le spinte, e allora bisogna che c’entri il bastone. Ogni pennellata, una legnata; ma si lascian legnare e fanno peggio. Ogni tanto gli s’accosta un Santo con intenzioni minacciose, e i soldati lo trattengono. V’è pure qualche moro progressista, che gli s’avvicina in aspetto amichevole, s’inchina, guarda, approva e s’allontana facendogli degli atti d’incoraggiamento. La maggior parte però di questi progressisti ammirano assai più la struttura del cavalletto e della seggiola portatile, che non la pittura. Un giorno un moro d’aspetto selvaggio gli mostrò il pugno, e poi, rivolgendosi verso i suoi concittadini, fece un lungo discorso con voce e gesti da spiritato. Un interprete là presente ci riferì che incitava il popolo contro il Biseo, dicendo che quel cane era stato mandato dal Re del suo paese a copiare le più belle moschee di Fez, perchè l’esercito cristiano, venendo poi ad assalire la città, le potesse riconoscere e bombardare per le prime. Ieri poi (c’ero presente) gli si accostò un vecchio moro stracciato, un viso di buon diavolo, tutto ridente, che pareva avesse grandi cose da dirci, e stentando un po’ a spiccicar le parole, esclamò con voce commossa:—France! Londres! Madrid! Roma!—Rimanemmo molto meravigliati, come ognuno può pensare. Gli domandai se sapeva parlare francese o italiano o spagnuolo. Fece cenno di sì.—Parlate dunque,—dissi. Si grattò la fronte, sospirò, pestò i piedi e poi esclamò di nuovo:—France! Londres! Roma! Madrid!—e accennava l’orizzonte. Voleva dire che aveva visto quei paesi, e forse che una volta sapeva farsi capire nelle nostre lingue; ma che aveva tutto dimenticato. Gli feci altre domande, ma non ne cavai nulla di più di quei quattro nomi. E se n’andò ripetendo:—Madrid! Roma! France! Londres! e fin che ci vide, ci salutò affettuosamente, esprimendo col gesto il rammarico di non poter parlare.—Si trova di tutto fra questa gente,—diceva il Biseo indispettito,—persino degli originali che ci voglion bene; ma non un cane che voglia lasciarsi copiare!—Finora, infatti, tutti gli sforzi dei pittori non hanno approdato a nulla. Si rifiutò persino il nostro fido Selam.—Hai paura del diavolo?—gli domandò l’Ussi.—No,—rispose col suo accento solenne,—ho paura di Dio. * * * Siamo saliti sulla cima del monte Zalag, il comandante, l’Ussi ed io, guidati dal capitano di Boccard, carissimo giovane, ugualmente ammirabile per la destrezza del corpo, per la forza dell’animo e per l’acume dell’ingegno. Ci accompagnarono un ufficiale della scorta, tre fantaccini, tre cavalieri e tre servi. Arrivati ai piedi del monte, che è a un’ora e mezzo di cammino a nord-est della città, ci arrestammo per far colezione; dopo di che il capitano mise una mela sulla cima d’un bastone confitto in terra, e sulla mela uno scudo, e fece tirar a segno colla sua rivoltella servi e soldati. Il premio era ghiotto; tirarono tutti con grande impegno; ma essendo la prima volta che pigliavano in mano quell’arma, nessuno colpì, e lo scudo fu regalato all’ufficiale perchè lo dividesse fra tutti. C’era da ridere a vedere gli atteggiamenti che prendevano per aggiustare la mira. Chi rovesciava la testa indietro, chi si curvava tutto avanti, chi premeva il mento sul cane, chi si metteva in guardia come un tiratore di sciabola. Abituati tutti agli atteggiamenti terribili, nessuno sapeva adattarsi all’atteggiamento composto e riposato, che il capitano insegnava. Un soldato venne a domandarci se volevamo dare la mancia a una contadina dalla quale egli aveva preso un vaso di latte per noi. Gli si rispose di sì, ma a patto che la contadina stessa venisse a pigliarla. La contadina venne. Era una donna sui trent’anni, nera, disfatta, coperta di cenci, che avrebbe ispirato ripugnanza anche a un uomo affetto dalla più cieca satiriasi. S’avvicinò a passo lento, coprendosi il viso con una mano, e arrivata a cinque passi da noi, ci voltò le spalle e tese l’altra mano. Quanto si stizzì il Comandante!—Stia tranquilla,—gridò,—non m’innamoro, non perdo la testa, mi posso ancora dominare: Dio de’ dei, che spaventoso pudore!—Le mettemmo una moneta nella mano, raccolse il vaso del latte, prese la corsa verso la sua capanna, e arrivata sulla porta, spezzò il vaso profanato contro un sasso.... Cominciammo la salita, a piedi, accompagnati da una parte della scorta. Il monte è alto circa mille metri sopra il livello del mare, roccioso, ripidissimo, senza sentieri. In pochi minuti il capitano disparve fra le roccie; ma per il Comandante, l’Ussi e me, fu una delle dodici fatiche d’Ercole. Avevamo ciascuno un arabo al fianco, che ci sorreggeva e c’indicava dove mettere il piede; il che non c’impedì di battere molte patte sui pietroni, rammentando con terrore le due prime strofe del Natale d’Alessandro Manzoni. In alcuni punti fummo costretti ad arrampicarci come gatti, aggrappandoci ai cespugli e all’erbe, strisciando sulle roccie, raspando, sgambettando, afferrando le braccia delle nostre guide come il naufrago afferra la tavola di salvamento. Di tratto in tratto vedevamo sopra di noi qualche capra che pareva sospesa sulle nostre teste, tanto era erta la salita; e i sassi, appena tocchi, rotolavano fino ai piedi del monte. Coll’aiuto di Dio, dopo un’ora di stenti, riuscimmo sulla cima, sfiniti, ma senza rotture. Che bellezza di veduta! Giù nel fondo la città, una piccola macchia bianca della forma d’un otto, circondata di mura nere, di cimiteri, di giardini, di case di santo, di torri, e tutta la conca verdissima che la contiene; a sinistra una lunga striscia luccicante, il Sebù; a destra, la grande pianura di Fez, rigata d’argento dal Fiume delle perle e dal Fiume della fontana azzurra; a mezzogiorno, le cime azzurrine della gran catena dell’Atlante; a settentrione, le vette delle montagne del Rif; ad oriente, la vasta pianura ondulata dove è la fortezza di Teza, che chiude il passo fra il bacino del Sebù e il bacino della Muluia; sotto di noi, grandi ondulazioni di terreno, gialle di grano e d’orzo, segnate da innumerevoli sentieri, percorse da lunghissimi filari di aloè giganteschi; una grandezza di linee, una magnificenza di verde, una limpidezza di cielo, un silenzio, una quiete che beava l’anima. Chi direbbe che in questo paradiso terrestre sonnecchia un popolo decrepito, incatenato sopra un mucchio di rovine! Il monte che, visto dalla città, pareva un cono, ha invece una forma allungata, e sulla sommità è tutto roccia. Il capitano era salito sulla punta più alta; noi tre, più curanti della vita, ci sparpagliammo tra le roccie più basse, e ci perdemmo di vista. Fatti pochi passi, all’uscita d’una piccola gola, mi trovai faccia a faccia con un arabo. Mi fermai; si fermò e parve molto meravigliato di vedermi solo. Era un uomo sui cinquant’anni, d’aspetto truce, armato d’un grosso bastone. Ebbi un momento il sospetto che mi volesse accoppare per pigliarmi la borsa; ma con mio gran stupore, invece di assalirmi, mi salutò, sorrise e accennando il mio mento con una mano e accarezzando

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Argomenti: tanto spazio,    lungo discorso,    grande pianura,    paradiso terrestre,    grande carovana

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