Marocco di Edmondo De Amicis pagina 31

Testo di pubblico dominio

bere, avevo visto far capolino dal mio bicchiere una spropositata locusta, la quale, invece di volar via a un mio gesto minaccioso, s’era messa a guardarmi con un’aria d’impertinenza inaudita. E infine, per colmo di spavento, mentre ci alzavamo da tavola, era comparso il servo Hamed, col viso di chi ha corso un grande pericolo, e ci aveva messo sotto gli occhi, infilata in uno stecco, nientemeno che una tarantola, una lycosa tarentula, il ragno terribile, che cuando pica á un hombre, quando punge un uomo, diceva lui, Allà ce ne guardi! il disgraziato comincia a ridere, a piangere, a cantare e a ballare, e non c’è che una buona musica, ma buona! la musica della banda del Sultano, che lo possa guarire. Ora immagini il lettore, con che animo io sia andato a dormire. Nondimeno, i miei tre compagni ed io eravamo già a letto da parecchi minuti, avevamo già spento il lume e cessato di parlare, e nessuno sentiva nulla. Ma fu una gioia passeggera. Tutt’a un tratto il Comandante balzò a sedere sul letto e gridò:—Io mi sento popolato!—Allora anche noi cominciammo a sentir qualche cosa. Per qualche tempo non furono che contatti furtivi, punture timide, stuzzicamenti, piccole provocazioni di esploratori e di sentinelle avanzate, alle quali si poteva non badare. Ma entrarono in campo ben presto le grosse pattuglie e allora diventò necessaria una vigorosa resistenza offensiva. La lotta fu feroce. Più ci dibattevamo, e più gli assalitori raffittivano. Venivan dal capezzale, salivan dai piedi, scendevano dall’alto della tenda. Pareva che eseguissero degli assalti coordinati ad un vasto concetto strategico di qualche insettaccio d’ingegno. Era evidentemente una guerra di religione. In breve non fummo più capaci di resistere.—La luce!—gridò il viceconsole. Saltammo tutti e quattro in terra, s’accese il lume, si cominciò la strage. La soldataglia l’ammazzavamo senz’altro; i capi, i pezzi grossi, classificati prima dal capitano e giudicati dal comandante, erano messi sul rogo dal vice-console, ed io ne facevo l’elogio funebre in prosa e in versi sciolti che saran pubblicati dopo la mia morte. In poco tempo il terreno fu seminato d’ale, di zampe, di gambe, di teste, i superstiti si dispersero, e noi, stanchi dell’eccidio, dopo esserci nominati reciprocamente cavalieri di varii ordini, rimettemmo la testa sul guanciale. Ma che chiasso! Che matta allegria, benchè non fossimo più nessuno di primo pelo! Che risate che venivano proprio d’in fondo e facevano bene all’anima e al corpo! La mattina seguente, al levar del sole, il governatore Ben-el-Abbassi si presentò all’ambasciatore per accompagnarlo fino ai confini della sua provincia. Appena discesi dall’altopiano dell’accampamento, ci si spiegò dinanzi agli occhi l’orizzonte immenso della pianura del Sebù. Questo fiume, uno dei più grandi del Magreb, scende dal fianco occidentale della catena di montagne che si allunga dall’alto Atlante verso lo stretto di Gibilterra, e con un corso di circa duecento quaranta chilometri, ingrossato da molti affluenti, si va a versare, descrivendo un grande arco, nell’Oceano atlantico, presso Mehedia, dove l’ammontamento delle sabbie, comune alle foci di quasi tutti i fiumi marocchini di quel versante, impedisce l’entrata ai bastimenti e produce grandi innondazioni al tempo delle cresciute. La vallata di questo fiume, che abbraccia, alla sua apertura, tutto lo spazio compreso fra le due città di Laracce e di Salé, e tocca alla sua estremità superiore l’alto bacino della Muluia (il grande fiume che segna il confine orientale del Marocco), apre agli Europei, per il litorale e per Teza, la via della città di Fez; comprende, oltre a Fez, la grande città di Mechinez, terza capitale; raccoglie in sè tutta, si può dire, la vita politica dell’Impero, ed è la sede principale della ricchezza e della forza dei Sceriffi. Il Sebù, particolarità da notarsi, segna, dalla parte del settentrione, il confine che i Sultani non oltrepassano mai fuor che in caso di guerra, poichè rimangono a mezzogiorno del fiume le tre città, Fez, Marocco e Mechinez, nelle quali essi soggiornano alternativamente, e la doppia città di Salé-Rabatt, dove passano per recarsi da Fez a Marocco. E fanno questo giro per non valicare la catena dei monti che chiude a mezzogiorno la vallata del Sebù, il versante della quale è abitato dalla tribù dei Zairi, di razza berbera mista, che hanno fama d’essere, coi Beni-Mitir, i più turbolenti e i più indomiti abitatori di quei monti. Dopo un’ora di cammino arrivammo al Sebù. Mi parve di vedere il Tevere nella Campagna romana. In quel punto era largo un centinaio di metri, color di mota, grosso, rapido, incassato fra due rive altissime, quasi verticali, aride, ai piedi delle quali si stendevano due zone di terreno fangoso. Due barconi antidiluviani, spinti a remi da una decina d’arabi, s’avvicinavano alla nostra riva. Basterebbero quei barconi, quando non ci fosse altro, a far capire che cos’è il Marocco. Da centinaia d’anni, sultani, pascià, carovane, ambasciate passano il fiume su due carcasse di quella fatta, coi piedi nell’acqua e nella mota, qualche volta con pericolo d’affondare; e quando le carcasse, come segue spessissimo, sono bucate, carovane e ambasciate e pascià e sultani aspettano che i barcaiuoli abbian turati i buchi col fango, o in altro modo, qualche volta per due o tre ore, al sole o sotto la pioggia; e da centinaia d’anni, cavalli, muli e cammelli, per la mancanza d’un pezzo di tavola lungo due metri, rischiano di rompersi le gambe, e se le rompono, saltando dalla sponda nei barconi; e nessuno ha mai pensato a costrurre un ponte di barche, e nessuno ha mai portato sulle sponde un pezzo di tavola lungo due metri, e chi rimprovera a quella gente la mancanza dell’una e dell’altra cosa, è guardato con un’aria di profondo stupore, come se li rimproverasse di non aver fatto un prodigio. In molti luoghi si attraversano i fiumi sopra barche di canne, e gli eserciti li passano per lo più sopra ponti galleggianti, formati con otri rigonfi d’aria e coperti di rami e di terra. Si smontò tutti da cavallo, e si discese per un sentiero ripido fino alle barche. La prima barca facendo due o tre larghi giri per scansare le correnti e i ringorghi, portò all’altra sponda tutti gli italiani. Di là assistemmo al passaggio dell’intera carovana. Che bel quadro! Me lo vedo ancora dinanzi nel momento della sua maggior vivezza. Nel mezzo del fiume, scivola un barcone pieno di cammelli e di mori d’una carovana mercantile, e un po’ più oltre l’altro barcone che porta i cavalli e i cavalieri della scorta di Fez, in mezzo ai quali sventola la bandiera di Maometto e spicca il viso nero e il turbante di mussolina del Caid. Di là dal fiume, in mezzo a una grande confusione di cavalli, di mule, di servi, di casse, che ingombrano un lunghissimo tratto di sponda, biancheggia la figura gentile del governatore Ben-el-Abbassi, seduto sopra un rialto di terreno, in mezzo ai suoi ufficiali, all’ombra del suo bel cavallo nero dalla sella color celeste. Sull’alto della riva, che si mostra come il muro d’una fortezza, dietro una lunga fila d’arabi della campagna, seduti sull’orlo colle gambe spenzoloni, sono schierati i duecento cavalieri del Governatore, che visti così in alto, sul fondo azzurro del cielo, presentano l’apparenza di duecento giganti. Alcuni servi neri ignudi si tuffano e si rituffano nell’acqua spruzzandosi e gridando. Parecchi arabi lavano i loro cenci sulla sponda, all’uso moresco, ballonzolandovi sopra con movimenti di marionetta. Altri attraversano il fiume a nuoto. Sul nostro capo passano degli stormi di cicogne; lontano, sulla riva, s’alza una colonna di fumo da un gruppo di tende di beduini; i barcaiuoli cantano una preghiera al Profeta per la buona riuscita dell’impresa; le acque mandano scintille d’oro, e Selam, ritto a dieci

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Argomenti: grande città,    cavallo nero,    grande fiume,    tavola lungo,    vasto concetto

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