Marocco di Edmondo De Amicis pagina 50

Testo di pubblico dominio

scorta che cercavano di rovesciare coi calci dei fucili una delle mille porte che durante la notte impediscono la circolazione per le strade di Fez. Il lavoro durò un pezzo; lampeggiava, tonava, scrosciava la pioggia; i servi e i soldati andavano e venivano colle lanterne, proiettando le loro lunghe ombre sui muri; il caid, ritto sulle staffe, minacciava gli abitanti invisibili delle case circostanti; e noi ci godevamo quel bel quadro del Rembrandt con un gusto infinito. Finalmente s’udì un fortissimo schianto, la porta cadde e ci rimettemmo in cammino. A poca distanza da casa, sotto una volta sepolcrale, sei soldati di fanteria ci presentarono le armi con una mano sola, tenendo coll’altra un moccolo acceso; e fu questa l’ultima scena della rappresentazione fantastica intitolata:—Un pranzo in casa del gran vizir.—Ma no; l’ultima scena fu quando, appena rientrati nel nostro cortile, ci precipitammo sulle sardine di Nantes e sulle bottiglie di Bordeaux, e l’Ussi, alzando il bicchiere sopra le nostre teste, esclamò con accento solenne:—A Sidi-Ben-Iamani Boascerin, gran vizir del Marocco, nostro graziosissimo ospite, Stefano Ussi, cristianamente perdonando, consacra! * * * Il Sultano ha ricevuto l’Ambasciatore in udienza privata. La sala dei ricevimenti è grande, bianca e nuda come una prigione. Non v’è altro ornamento che un gran numero di orologi a pendolo, di tutte le dimensioni e di tutte le forme, in parte schierati sul pavimento, lungo le pareti; in parte ammucchiati sopra una tavola, in mezzo alla sala. Gli orologi, è da notarsi, sono per i mori un oggetto principalissimo d’ammirazione e di divertimento. Il Sultano stava dentro una piccola alcova, seduto, colle gambe incrociate, sopra un palco di legno, alto un metro. Aveva indosso, come al ricevimento pubblico, una cappa bianchissima, il cappuccio sul capo, i piedi nudi, le babbuccie gialle in un canto e un cordone verde a traverso il petto, al quale doveva essere appeso un pugnale. In questa forma gl’Imperatori del Marocco ricevono tutti gli Ambasciatori: il loro trono, come disse il Sultano Abd-er-Rhaman, è il cavallo e il loro padiglione il cielo. L’Ambasciatore, avendone prima manifestato il desiderio a Sid-Mussa, trovò dinanzi al palco imperiale una modesta seggiola, sulla quale, a un cenno del Sultano, sedette; il signor Morteo, interprete, rimase in piedi. Sua Maestà Mulei el Hassen parlò lungamente, senza mai levar le braccia di sotto la cappa, senza fare un movimento del capo, senza alterare d’un solo accento l’abituale monotonia della sua voce dolce e profonda. Parlò dei bisogni del suo Impero, di commerci, d’industrie, di trattati, scendendo a particolari minuti, con molto ordine e grande semplicità di linguaggio. Fece molte domande ascoltò le risposte con viva attenzione, e conchiuse dicendo con un accento di leggera mestizia:—È vero; ma siamo costretti a procedere lentamente;—strane ed ammirabili parole sulle labbra d’un Imperatore del Marocco. Vedendo che non accennava mai, neanche negl’intervalli di silenzio, a troncare il colloquio, l’Ambasciatore si credette in dovere d’alzarsi.—Restate ancora;—disse con un certo garbo ingenuo il Sultano;—mi piace discorrere con voi.—Quando l’Ambasciatore, andandosene, s’inchinò per l’ultima volta sulla soglia della porta, egli abbassò leggermente la fronte, e rimase immobile, come un idolo, nel suo tempio deserto. * * * È venuta una comitiva di donne ebree a presentare non so che istanza all’Ambasciatore. Nessuno potè sottrarre le mani alla pioggia dei loro baci. Eran mogli, figliuole e parenti di due agiati negozianti: bellissime donne, di fulgidi occhi neri, di carnagione bianca, di labbra porporine, di mani piccolissime. Le due madri, già vecchie, non avevano un capello bianco, e brillava ancora nelle loro pupille tutto il fuoco della giovinezza. Avevano un vestimento pittoresco e splendido: un fazzoletto di seta di colori vivissimi, stretto intorno alla fronte; una zuavina di panno rosso, ornata di larghi e spessi galloni d’oro; un panciotto tutto dorato; una sottana corta e stretta, di panno verde, pure listata di galloni risplendenti; una cintura di seta rossa o azzurra intorno alla vita. Parevan tante principesse asiatiche, e questa pompa contrastava bizzarramente colle loro maniere servilmente ossequiose. Parlavano tutte spagnuolo. Soltanto dopo qualche minuto, ci accorgemmo che avevano i piedi nudi e le babbuccie gialle sotto il braccio. —Perchè non vi calzate?—domandai a una delle vecchie. —Come!—mi domandò alla sua volta, meravigliandosi—non sa ella dunque che gl’Israeliti non possono portare le scarpe che nel Mellà, e che, entrando nella città mora, debbono andare a piedi nudi? Rassicurate dall’Ambasciatore, si calzarono. Così è infatti. Non sono assolutamente obbligati ad andar sempre a piedi nudi; ma dovendo levarsi le babbuccie quando passano per certe strade, davanti a certe moschee, accanto a certe cube, finisce per essere lo stesso. E non è questa la sola nè la più umiliante vessazione a cui vanno soggetti. Non possono testimoniare in giudizio, e debbono prostrarsi a terra parlando davanti ai tribunali; non possono possedere terreni o case fuori del loro quartiere; non possono andare a cavallo per la città; non possono alzar la mano sopra un mussulmano nemmeno per difendersi, eccetto il caso in cui siano assaliti in casa propria; non possono vestirsi che di colori oscuri; debbono portare correndo i loro morti al cimitero, debbono domandare al Sultano il permesso di sposarsi, debbono rientrare nel Mellà al tramonto del sole, debbono pagare la guardia mora che veglia alle porte del loro quartiere, debbono presentare dei ricchi doni al Sultano nelle quattro feste dell’Islamismo e in occasione d’ogni nascita e d’ogni matrimonio della famiglia imperiale. Ed era anche peggiore la loro condizione prima del Sultano Ald-er-Rhaman, il quale impedì almeno che si spargesse il loro sangue. Nè, anche volendo, potrebbero i Sultani migliorarne gran fatto lo stato, senza esporre quegli infelici a mali peggiori della orribile schiavitù che li schiaccia, tanto è fanatico e feroce contro di loro l’odio dei Mori. Esempio l’Imperatore Solimano, il quale, avendo decretato che potessero portar le babbuccie, ne furono uccisi tanti, in pieno giorno, per le strade di Fez, ch’essi medesimi domandarono, per salvarsi dalla strage, la revocazione del decreto. Rimangono nondimeno nel paese, e perchè ci arricchiscono, servendo d’intermediarii fra il commercio d’Europa e il commercio dell’Affrica; e perchè il Governo, comprendendo di quale importanza essi sono per la prosperità dello Stato, oppone una barriera quasi insormontabile all’emigrazione, proibendo ad ogni donna ebrea l’uscita dal Marocco. Servono, tremano e strisciano nella polvere; ma non darebbero, per acquistar la dignità d’uomini e la libertà di cittadini, il mucchio di monete d’oro che tengon nascoste nelle pareti delle loro luride case. In Fez sono intorno a otto mila, divisi per sinagoghe e retti dai rabbini, che godono d’una grande autorità. Quelle povere donne ci mostrarono parecchi grossi braccialetti d’argento cesellato, degli anelli ingemmati e degli orecchini d’oro, che tenevano nascosti nel seno. Domandammo perchè li nascondevano. —Nos espantamos de los Moros.—Abbiamo paura dei mori,—risposero a voce bassa, guardando intorno con diffidenza. Diffidavano persino dei soldati della Legazione. Fra loro v’erano parecchie bambine vestite colla medesima pompa delle donne. Una di esse stava accanto alla madre in atteggiamento più timido che le altre. L’Ambasciatore domandò alla madre che età avesse. Rispose dodici anni. —Si mariterà presto,—disse l’Ambasciatore. —Che!—esclamò la madre;—è già troppo vecchia per pigliar marito. Credemmo tutti che scherzasse. —Dico davvero;—rispose la madre quasi meravigliandosi della

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