Marocco di Edmondo De Amicis pagina 63

Testo di pubblico dominio

convertita in una gran bottega di rigattiere, piena di selle, di staffe, di fucili, di caffettani, di ciarpe lacere, di terraglia, di orecchini barbareschi, di vecchie cinture da donna, venute Dio sa di dove, che hanno forse sentito molte volte la stretta amorosa delle braccia imperiali, e forse l’anno venturo luccicheranno in un quadro magistrale alla mostra di Napoli o di Filadelfia. Un solo genere manca, e sono gli oggetti d’antichità, ricordi dei varii popoli che conquistarono o colonizzarono il Marocco; e benchè si sappia che sovente se ne trovano sotto terra o fra le rovine, non c’è mezzo d’averne, poichè ogni oggetto scoperto dovendo essere portato alle Autorità, chi scopre, tien nascosto, e le Autorità, non conoscendone il valore, distruggono o vendono come materia inutile il poco che ricevono. Così, anni sono, un cavallo ed alcune statuette di bronzo trovate in un pozzo vicino ai resti d’un acquedotto, furon rotte e vendute come vecchio rame a un rigattiere israelita. * * * Oggi ho fatto con un negoziante di Fez una viva discussione, coll’intento di scoprire quello che pensano i mori della civiltà europea; e per questo non mi affannai a ribattere i suoi argomenti se non quanto era necessario per dargli spago. È un bel moro sui quarant’anni, di fisonomia onesta e severa, che visitò, per affari di commercio, le principali città dell’Europa occidentale, e stette lungo tempo a Tangeri dove imparò un po’ di spagnuolo. Già nei giorni scorsi avevo scambiato con lui qualche parola a proposito d’un piccolo pezzo di stoffa intessuto di seta e d’oro di cui pretendeva la bellezza di dieci marenghi. Ma oggi toccandolo sull’argomento dei suoi viaggi, gli attaccai una parlantina di cui i suoi compagni stessi, che ascoltavano senza capire, rimasero stupiti. Gli domandai dunque che impressione gli avessero fatta le grandi città europee non aspettandomi peraltro di sentire grandi espressioni di meraviglia, perchè sapevo, come tutti sanno, che dei quattro o cinquecento negozianti marocchini che vanno ogni anno in Europa, la maggior parte ritornano nel loro paese più stupidamente fanatici di prima, quando non ritornano più viziosi e più birbanti; e che se tutti rimangono stupiti dello splendore delle nostre città e delle meraviglie delle nostre industrie, nessuno però ne rimane scosso nell’anima, acceso nella mente, spronato a fare, a tentare, a imitare; nessuno intimamente persuaso della inferiorità complessiva del paese proprio; e nessunissimo, poi, se anche avesse questi sentimenti s’arrischierebbe ad esprimerli, e tanto meno a cercar di diffonderli, per paura di tirarsi addosso l’accusa di mussulmano rinnegato e di nemico del suo paese. —Che cosa avete da dire—gli domandai—delle nostre grandi città? Mi guardò fisso e rispose freddamente: —Strade grandi, belle botteghe, bei palazzi, belle officine.... e tutto pulito. Con ciò parve che avesse detto tutto quello che aveva da dir d’onorevole per noi. —Non ci avete trovato altro di bello e di buono?—domandai. Mi guardò come per domandarmi alla sua volta che cosa pretendevo ch’egli ci avesse trovato. —Ma possibile—(mi stizzii)—che un uomo ragionevole come voi siete, che ha visto dei paesi così meravigliosamente diversi e superiori al suo, non ne parli almeno con stupore, almeno colla vivacità con cui il ragazzo d’un duar parlerebbe del palazzo d’un pascià? Ma di che cosa vi meravigliate dunque al mondo? Che gente siete? Chi vi capisce? —Perdóne Usted,—rispose freddamente;—io vi rispondo che non capisco voi. Quando v’ho detto tutte le cose nelle quali credo che siate superiori a noi, che volete che vi dica di più? Volete che vi dica quello che non penso? Vi dico che le vostre strade sono più grandi delle nostre, che le vostre botteghe sono più belle, che avete delle officine che noi non abbiamo, che avete dei ricchi palazzi. Mi par d’aver detto tutto. Dirò ancora una cosa: che sapete più di noi perchè avete dei libri e leggete. Feci un atto d’impazienza. —Non v’impazientate, caballero;—ragioniamo tranquillamente. Voi convenite che il primo dovere d’un uomo, la prima cosa che lo rende stimabile, e quella in cui importa massimamente che un paese sia superiore agli altri paesi, è l’onestà; non è vero? Ebbene, in fatto d’onestà io non credo in nessuna maniera che voi altri siate superiori a noi. E una. —Adagio. Spiegatemi prima che cosa intendete di dire con questa parola onestà. —Onestà nel commercio, caballero. I mori, per esempio, nel commercio, ingannano qualche volta gli europei; ma voi altri europei ingannate molto più spesso i mori. —Saranno casi rari—risposi, per dir qualche cosa. —Casos raros?—esclamò accendendosi. Casi di tutti i giorni!—(E qui vorrei poter riferire tale e quale il suo linguaggio rotto, concitato e infantile). Prove! Prove! Io a Marsiglia. Sono a Marsiglia. Compro cotone. Scelgo il filo, grosso così. Dico:—questo numero, questo bollo, tanta quantità, mandate.—Pago, parto, arrivo al Marocco, ricevo cotone, apro, guardo, stesso numero, stesso bollo.... filo tre volte più piccolo! non serve a niente! migliaia di lire perdute! Corro al Consolato.... niente. Otro. Un altro. Mercante di Fez ordina Europa panno turchino, tanti pezzi, tanto larghi, tanto lunghi, convenuto, pagato. Riceve il panno, apre, misura: primi pezzi, giusti; sotto, più corti; gli ultimi, mezzo metro meno! Non servono più alle cappe, mercante rovinato. Otro, otro. Mercante di Marocco ordina, Europa, mille metri gallone d’oro per ufficiali e manda denaro. Gallone viene, tagliato, cucito, portato.... rame! Y otros, y otros, y otros!—Ciò detto alzò il viso al cielo, e poi, rivolgendosi vivamente verso di me:—Più onesti voi? Ripetei che non potevano essere che casi eccezionali: non rispose. —Più religiosi voi?—domandò poi bruscamente.—No! E dopo qualche momento:—No! Basta essere entrati una volta nelle vostre moschee. —Ora dite,—soggiunse poi, incoraggiato dal mio silenzio;—nei vostri paesi, succedono meno matamientos? (uccisioni). Qui sarei stato imbarazzato a rispondergli. Che cosa avrebbe detto se io gli avessi confessato che soltanto in Italia si commettono tremila omicidi all’anno, e che ci sono novantamila prigionieri tra condannati e da giudicarsi? —Non credo,—disse, leggendomi negli occhi la risposta. Non sentendomi sicuro su questo terreno, lo attaccai coi soliti argomenti sulla quistione della poligamia. Saltò su come se l’avessi scottato; —Sempre questo!—gridò facendosi rosso fino alle orecchie.—Sempre questo! Come se voi aveste una donna sola! E ce lo volete far credere! Una sola è vostra, ma ci son poi quelle de los otros, e quelle che sono de todos y de nadie, di tutti e di nessuno. Parigi! Londra! Caffè pieni, strade piene, teatri pieni. Verguenza! E rimproverate i Mori? Dicendo questo, stropicciava con mano tremante il suo rosario, e si voltava di tratto in tratto per farmi capire, con un leggero sorriso, che non mi avessi a male del suo sdegno, perchè egli non l’aveva con me; ma coll’Europa. Vedendo che in questa quistione se la pigliava troppo a cuore, sviai il discorso, e gli domandai se non riconosceva le maggiori comodità della nostra maniera di vivere. Qui fu comicissimo. Aveva degli argomenti preparati. —È vero,—rispose con un accento ironico;—è vero... Sole? Ombrello. Pioggia? Paracqua. Polvere? Guanti. Camminare? Bastone. Guardare? Occhialino. Passeggiare? Carrozza. Sedere? Elastico. Mangiare? Strumenti. Una scalfittura? Medico. Morto? Statua. Eh! di quante cose avete bisogno! Che uomini, por Dios! Che bambini! Insomma, non me ne voleva passar una. Trovò persino a ridere sull’architettura. —Che! Che!—rispose quando gli parlai dei comodi delle nostre case.—State trecento in una casa sola, gli uni sugli altri, e poi salire, salire, salire—e manca aria e manca luce e manca giardino. Allora gli

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Argomenti: lungo tempo,    mezzo metro,    bel moro,    piccolo pezzo,    materia inutile

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