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Marocco di Edmondo De Amicis pagina 10un gesto strano col braccio spenzoloni, gettavano tutti insieme un grido acuto e doloroso, come di chi riceva una pugnalata mortale; poi andavano alcuni passi innanzi, e ricominciavano la danza, gemendo e sbuffando; e allora si vedeva un ondeggiamento disordinato di cappucci, di grandi maniche, di treccie, di ciuffi, di folte capigliature spartite in lunghe ciocche ondulate, che parevano teste anguicrinite. Alcuni, più spiritati, andavano fra una schiera e l’altra, barcollando come ubbriachi, sbatacchiandosi contro i muri e le porte. Altri, come rapiti in estasi, camminavano ritti, lenti, col viso in alto, gli occhi socchiusi, le braccia abbandonate. Parecchi, sfiniti, che non potevano più nè gridare nè reggersi, eran tenuti su per le ascelle dai compagni, e travolti così, come corpi morti, nella folla. La ridda si faceva di mano in mano più scomposta, e il gridìo più assordante. Erano dondolamenti di testa da lussarsi le vertebre del collo e rantoli da spezzarsi la cassa del petto. Da tutti quei corpi grondanti di sudore, veniva su un puzzo nauseabondo come da un serraglio di fiere. Ogni tanto uno di quei visi stravolti si alzava verso il terrazzo e fissava nei miei due occhi stralunati, che mi facevano torcere indietro la testa. Di momento in momento, dentro di me, cangiava l’effetto di quello spettacolo. Ora mi pareva una gran mascherata, ed ero tentato di riderne; ora ci vedevo l’immagine d’una gran baldoria di pazzi, di malati in delirio, di galeotti ubbriachi, di condannati a morte che volessero stordire il proprio terrore, e mi stringevano il cuore; ora non consideravo che la bellezza selvaggia del quadro, e ci provavo la voluttà d’un artista. Ma a poco a poco, il senso intimo di quel rito, s’impose alla mia mente; il sentimento, che quelle smanie traducevano, e che tutti abbiamo provato molte volte, lo spasimo dell’anima umana che si agita sotto l’immensa pressione dell’Infinito, si risvegliò; e senz’accorgermene, accompagnavo quel turbinìo col linguaggio che lo spiegava:—Sì, ti sento, Potenza misteriosa e tremenda: mi dibatto nella stretta della tua mano invisibile; il sentimento di Te mi opprime, non ho forza di contenerlo, il mio cuore si sgomenta, la mia ragione si perde, il mio involucro di creta si spezza!—E continuavano a passare, fitti, pallidi, scapigliati, mettendo voci supplichevoli, in cui pareva che esalassero la vita. Un vecchio cadente, un’immagine di re Lear forsennato, si staccò dalla schiera e s’avventò come per spaccarsi il cranio nel muro: i compagni lo trattennero. Un giovane cadde di picchio in terra, fuori dei sensi. Un altro, coi capelli sciolti giù per le spalle, la faccia nascosta nelle mani, passò a lunghissimi passi, curvato fino a terra, come un maledetto da Dio. Passarono beduini, mori, berberi, neri, colossi, mummie, satiri, faccie di cannibali, di santi, d’uccelli di rapina, di sfingi, d’idoli indiani, di furie, di fauni, di diavoli. Potevano essere un tre o quattrocento. In meno di mezz’ora sfilarono tutti. Le ultime erano due donne (perchè anche le donne possono appartenere all’ordine), due figure di sepolte vive, riuscite a spezzare la bara, due scheletri animati, vestite di bianco, coi capelli rovesciati sul viso, gli occhi sbarrati, la bocca bianca di schiuma, sfinite di forze, ma ancora animate da un movimento di cui non parevano aver più coscienza, che si scontorcevano, urlavano e stramazzavano; e in mezzo a loro un vecchio gigantesco, una figura di negromante centenario, vestito d’una camicia lunghissima, che allungando due grandi braccia cadaveriche, posava la mano sul capo ora all’una ora all’altra, in atto di protezione, e le aiutava a rialzarsi da terra. Dietro a questi tre spettri si precipitò una folla di arabi armati, di donne, di pezzenti, di bimbi; e tutta quella barbarie, tutto quel furore, tutto quell’orrendo cumulo di miseria umana, irruppe nella piazza e scomparve. * * * Un altro bello spettacolo, che s’ebbe a Tangeri, fu quello delle feste per la nascita di Maometto; e mi fece un’impressione anche più viva perchè mi ci trovai dinanzi, posso dire, all’impensata. Tornando da una passeggiata sulla riva del mare, sentii alcuni colpi di fucile dalla parte del Soc di Barra; v’accorsi e sul primo momento non riconobbi più il luogo. Il Soc di Barra era trasfigurato. Dalle mura della città fino alla sommità della collina v’era formicolìo d’arabi, una folla tutta bianca, straordinariamente animata. Saranno state tremila persone, ma sparse e raggruppate in maniera che parevano innumerevoli. Era un’illusione ottica singolarissima. Su tutti i rialti del terreno, come sopra altrettante loggie, v’erano gruppi di arabe sedute all’orientale, immobili, rivolte verso la parte bassa del Soc. Qui, da una parte, la folla divisa in due ali lasciava libero un grande spazio a un drappello di cavalieri che si slanciavano alla carriera, schierati di fronte, sparando i loro fucili lunghissimi; dall’altra parte, v’erano grandi cerchi d’arabi, uomini e donne, in mezzo ai quali davano spettacolo giocatori di palla, tiratori di scherma, incantatori di serpenti, ballerini, cantastorie, suonatori, soldati. Sull’alto della collina, sotto una tenda conica, aperta sul davanti, biancheggiava l’enorme turbante del vice-governatore di Tangeri, il quale presiedeva alla festa, seduto in terra, in mezzo a una corona di mori. Di lassù si vedevano giù in mezzo alla folla i soldati delle Legazioni vestiti dei loro pomposi caffettani rossi, qualche cappello cilindrico, qualche ombrella di consolessa, e i pittori Ussi e Biseo coll’album e la matita in mano; di là dalla folla, Tangeri; di là da Tangeri, il mare. Lo strepito delle fucilate, gli urli dei cavalieri, lo scampanellìo degli acquaioli, le grida festose delle donne, il suono dei pifferi, dei corni, dei tamburi, formavano tutt’insieme un frastuono inaudito, che rendeva più strano ancora quello spettacolo selvaggio, irradiato dalla luce sfolgorante del mezzogiorno. La curiosità mi spingeva da dieci parti in un punto. Ma un grido d’ammirazione, partito da un gruppo di donne, mi fece correr prima dai cavalieri. Erano dodici soldati di alta statura, col fez a punta, la cappa bianca, i caffettani aranciati, azzurrini e rossi, e fra loro un ragazzo vestito con femminile eleganza, figlio del governatore del Rif. Si schieravano ai piedi delle mura della città, rivolti verso la campagna; il figlio del governatore, nel mezzo, alzava la mano, e si slanciavano tutti insieme alla carriera. Nei primi passi v’era un po’ d’incertezza e un po’ di disordine. Poi quei dodici cavalli, stretti, sfrenati, ventre a terra, non formavano più che un solo corpo, un mostro furioso, di dodici teste e di cento colori, che divorava la via. Allora i cavalieri, inchiodati sulle selle, colla fronte alta, colla cappa al vento, alzavano i fucili sopra la testa, li stringevano con un movimento convulso contro le spalle, sparavano tutti insieme gettando un urlo di trionfo e di rabbia, e sparivano in un nuvolo di polvere e di fumo. Pochi momenti dopo tornavano indietro lentamente, in disordine, i cavalli schiumosi e insanguinati, i cavalieri in atteggiamento stanco e superbo, e in capo ad alcuni minuti ricominciavano. Ad ogni nuova scarica, le donne arabe, come le dame dei tornei, salutavano il drappello con un gridìo loro proprio, che è una ripetizione rapidissima del monosillabo: Iù, simile a un trillo acuto di gioia infantile. Di là passai al giuoco della palla. Erano una quindicina d’arabi, ragazzi, uomini maturi e vecchi colla barba bianca, alcuni col fucile a tracolla, altri colla sciabola, e giocavano con una palla di cuoio grossa come un arancio. Uno la pigliava, la lasciava cadere e la ributtava in alto con un colpo del piede; tutti gli altri correvano per coglierla in aria; chi la coglieva, rifaceva l’atto del primo; e così il gruppo dei giocatori, seguitando la palla, Tag: tutti donne mano due folla terra mezzo bianca spettacolo Argomenti: grande spazio, grido acuto, puzzo nauseabondo, gesto strano, senso intimo Altri libri consultabili online del sito affini al contenuto della pagina: Storia di un'anima di Ambrogio Bazzero Decameron di Giovanni Boccaccio Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni Fior di passione di Matilde Serao Garibaldi di Francesco Crispi Articoli del sito affini al contenuto della pagina: Guadalupa, l'acqua cristallina del mare dei Caraibi Offerte Capodanno Barcellona Come piantare le rose Residence Cannes Beach Consigli per fare dei bei braccialetti
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