Marocco di Edmondo De Amicis pagina 36

Testo di pubblico dominio

Morteo, lo chiamai con un cenno furtivo, e lo pregai di star coll’orecchio teso, senza farsi scorgere, e di tradurmi letteralmente le canzonature di que’ furfanti. Mi servì a meraviglia. Uno fece subito un’osservazione che, al solito, provocò una risata. —Dice—tradusse il Morteo—che non sa capire a che cosa serva la falda di dietro del nostro vestito, a meno che non sia fatta per nascondere la coda.... Un momento dopo, un’altra osservazione, un’altra risata. —Dice che la divisa dei capelli che lei ha sulla nuca è la strada dove i pidocchi fanno il lab el barod. Una terza osservazione, un terzo scoppio di risa. —Dice che son curiosi questi cristiani, che per l’ambizione di parere alti di statura, si mettono un vaso sulla testa e due puntelli sotto le calcagna.... In quel punto un cane dell’ accampamento venne a accovacciarsi ai nostri piedi. Una quarta osservazione, e questa volta una risata sgangherata. —Questa è forte!—disse il Morteo.—Dice che questo cane è venuto ad accovacciarsi vicino agli altri cani.... Ora li accomodo io. Così dicendo, si voltò indietro bruscamente e disse qualche parola araba in tuono di minaccia. Fu un colpo di fulmine. In un momento non se ne vide più uno. Ma, povera gente, siamo giusti! Lasciando da parte le cariche dei pidocchi e la fratellanza coi cani, non avevan ragione di pensare di noi quello che pensavamo noi stessi, paragonandoci con loro? Dieci volte il giorno, mentre ci scorazzavano intorno quei superbi cavalieri, ci dicevamo gli uni agli altri:—Sì, siamo civili, siamo i rappresentanti d’una grande nazione, abbiamo più scienza nella testa, noi dieci, che non ce ne sia in tutto l’Impero dei Sceriffi; ma piantati su queste mule, vestiti di questi panni, con questi colori, con questi cappelli, in mezzo a loro, per dio, siamo brutti! Ah! quant’era vero! L’ultimo di quegli straccioni a cavallo era più gentile, più maestoso, più degno dello sguardo d’una donna, che tutti, messi in un fascio, i bellimbusti d’Europa. A tavola, quella sera, ci fu un’altra scenetta curiosa. Vennero a visitare l’Ambasciatore e sedettero accanto a lui, i due più vecchi Caid della scorta. L’Ambasciatore domandò loro:—Avete mai inteso nominare l’Italia? Tutti e due insieme, accennando vivamente di no colla mano, risposero col tuono di chi si affretta a dissipare un sospetto:—Mai! mai! Allora l’Ambasciatore, colla pazienza d’un maestro, diede loro alcune nozioni geografiche e politiche intorno al nostro misterioso paese. Stettero a sentire cogli occhi spalancati e la bocca aperta come due bambini. —E quanta popolazione ha il vostro paese? domandò uno. —Venticinque milioni,—rispose l’Ambasciatore. Fecero un atto di meraviglia. —E il Marocco,—domandò l’altro—quanti milioni ha? —Quattro,—rispose l’Ambasciatore per tastare il terreno. —Quattro soltanto!—esclamarono ingenuamente, guardandosi. Quei due bravi generali non sapevano del Marocco più che dell’Italia, e forse neanche più della loro provincia che del Marocco. Ma prima d’andarsene, ne dissero un’altra assai più comica. Il signor Morteo mostrò loro una fotografia della sua signora, dicendo:—Vi presento mia moglie. La guardarono e la riguardarono con compiacenza e poi domandarono tutti e due ad una voce:—E le altre? O non sapevano, o piuttosto non si rammentavano in quel momento che i Cristiani,—infelici,—non possono averne che una. Quella notte non ci fu verso di dormire. Chiocciavano le galline, latravano i cani, belavano i montoni, nitrivano i cavalli, cantavano le sentinelle, tintinnavano le campanelle dei venditori d’acqua, disputavano i soldati sulla ripartizione della muna, incespicavano i servi nelle cordicelle della tenda: l’accampamento pareva un mercato. Ma non v’erano più che quattro giorni di viaggio e noi avevamo una parola magica che ci consolava di tutto:—Fez! ZEGUTA Si partì per Zeguta, di buon mattino, tutti rallegrati dal pensiero che quel giorno si sarebbero viste da lontano le montagne di Fez. Spirava un fresco d’autunno, e una leggera nebbia velava la campagna. Una folla d’arabi imbacuccati nelle cappe ci facevano ala all’uscita dell’accampamento; i soldati della scorta, tutti infreddoliti, ci seguivano stretti in un gruppo; i bambini dei duar ci guardavano cogli occhi pieni di sonno di dietro alle siepi e alle tende. Ma dopo pochi minuti brillò il sole, i curiosi accorsero, i cavalieri si sparpagliarono, l’aria risuonò di fucilate e di grida, tutto pigliò colore, anima e luce, e immediatamente, come suol accadere in quei paesi, succedette al fresco autunnale l’ardore dell’estate. Fra i miei appunti di quella mattina ne trovo uno che dice laconicamente:—Cavallette. Saggio d’eloquenza di Selam.—Mi ricordo, infatti, d’aver visto un campo che da lontano pareva che si movesse, e quest’apparenza era prodotta da un grandissimo numero di cavallette verdi che s’avanzavano saltellando verso di noi. Selam, che in quel momento cavalcava al mio fianco, mi fece una descrizione ammirabilmente pittoresca delle invasioni di quegl’insetti formidabili, ed io la ricordo ancora parola per parola; ma come rendere l’effetto del suo gesto, del suo sguardo, della sua voce, che esprimevano assai più delle parole?—È uno spavento, signore! Vengon di là (e accennava a mezzogiorno). È una nuvola nera. Si sente il rumore da lontano. S’avanzano, s’avanzano, ed hanno il loro Sultano, il Sultano Ieraad, che le guida. Coprono strade, campi, case, duar, boschi. La nuvola cresce, cresce, va, va, va, rode, rode, rode, passa fiumi, passa fossi, passa muri, passa fuoco; distrugge erbe, fiori, foglie, frutti, grano, scorze d’alberi, e va va. Nessuno la ferma, non le tribù colle fiamme, non il Sultano con tutto l’esercito, non tutto il popolo del Marocco riunito insieme. Mucchi di cavallette morte? Avanti le cavallette vive. Muoion dieci? Nascon cento. Muoion cento? Nascon mille. Vedute a Tangeri. Strade, coperte; giardini, coperti; riva del mare, coperta; mare, coperto; tutto verde, tutto in moto, vive, morte, marcie, puzzo, peste, carestia, maledizione del cielo!—Così infatti accade. Il fetore che emana dalle miriadi di cavallette morte produce qualchevolta delle febbri contagiose, e, per citare un esempio, la peste spaventosa che spopolò nel 1799 le città e le campagne della Barberia, scoppiò dopo una delle loro più grandi invasioni. Quando si presenta l’avanguardia dell’esercito devastatore, gli arabi le movono incontro, in frotte di quattro o cinquecento insieme con bastoni e con fuoco; ma non riescono che a farle deviare per poco dal loro cammino, e segue spesso che una tribù cacciandole verso le terre d’una tribù vicina, la guerra alle cavallette si cangia in guerra civile. La sola forza che può liberare il paese da questo flagello, è un vento favorevole che le spinga nel mare, dove s’annegano, e vengon poi, per parecchi giorni, rigettate a mucchi sulle coste; e il solo conforto che rimanga agli abitanti quando il vento favorevole non soffia, è di mangiare, come fanno, le loro nemiche, prima che abbian deposte le uova, bollite e condite con sale, pepe ed aceto. Hanno un sapore di granchiolino di mare e se ne possono mangiare fino a quattrocento in un giorno. A due miglia circa dall’accampamento, raggiungemmo una parte della carovana che portava a Fez i regali di Vittorio Emmanuele. Erano cammelli uniti a coppie, l’uno dietro l’altro, con due lunghissime sbarre sospese alla groppa, sulle quali posavano le casse. Li accompagnavano alcuni arabi a piedi e qualche soldato a cavallo. Alla testa della carovana v’era un carro tirato da due buoi: il primo carro che vedevamo nel Marocco! stato fatto apposta a Laracce sul modello, credo, dei primi veicoli apparsi sulla superficie della terra: tozzo, pesante, deforme, colle ruote d’un sol pezzo, senza raggi; il più strano e più ridicolo arnese che si possa

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Argomenti: vento favorevole,    terzo scoppio,    ridicolo arnese

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