Marocco di Edmondo De Amicis pagina 60

Testo di pubblico dominio

padroni: il che pare che non segua dove la schiavitù è più dura, come a Cuba, e dove la libertà di cui godono è eccessiva, come in Europa. Le arabe e le more rifuggono da loro, ed è rarissimo che un nero sposi altra donna che del suo colore; ma gli uomini, e in specie i mori, non solo le cercano avidamente come concubine, ma le sposano colla stessa facilità che le bianche; onde il grandissimo numero di mulatti di tutte le sfumature che son nel Marocco. Strane vicende! Il povero nero di dieci anni, venduto sui confini del Sahara per un sacco di zucchero o un pezzo di stoffa, può, e si diede il caso discutere trent’anni dopo,—ministro del Marocco,—un trattato di commercio coll’ambasciatore d’Inghilterra; e molto più probabilmente, la bambina nera nata in una tana immonda e scambiata all’ombra d’un’oasi con un otre d’acquavite, trovarsi, appena adulta, coperta di gemme e fragrante di profumi, tra le braccia del Sultano. * * * Da qualche giorno, passeggiando per Fez, mi si affaccia alla mente con una persistenza ostinata l’immagine d’una grande città americana, alla quale accorre gente da ogni parte del mondo, una di quelle città che rappresentano quasi il tipo a cui tutte le città nuove si vanno lentamente informando, e la cui vita è forse un esempio di quello che sarà fra un secolo la vita di tutte; una città la cui immagine non si può presentare a nessun europeo, accanto a quella di Fez, senza farlo sorridere di pietà, tanto è grande la distanza che le separa sopra la via del progresso umano. Eppure, più mi fisso col pensiero in quella città, più mi sento preso da un dubbio che mi rattrista. Vedo quelle grandi strade, diritte e interminabili, in cui s’innalzano a perdita d’occhi i pali giganteschi del telegrafo. «È l’ora della chiusura degli opifici e delle botteghe. Torrenti d’operai, uomini, donne e ragazzi, passano a piedi, in omnibus, in tramway, seguendo quasi tutti la stessa direzione, verso i quartieri lontani; e tutti hanno l’aspetto triste e ansioso e sembrano estenuati dalla fatica.... Nuvole dense di fumo di carbone escono dalle innumerevoli torricine degli opifici, scendono nelle strade, gettano le loro ombre nere sulle splendide vetrine delle botteghe, sulle lettere dorate degli annunzi che coprono le facciate fino ai tetti, sulla folla che, colla testa bassa, a passo cadenzato, dondolando le braccia, fugge in silenzio i luoghi che, durante il giorno, videro colare il suo sudore. Di tratto in tratto, il sole squarcia il velo lugubre che l’industria ha disteso sulla capitale del lavoro; ma questi bagliori improvvisi, fuggitivi, invece di rallegrare la scena, non fanno che illuminarne la tristezza... Tutte le fisonomie hanno la medesima espressione. Ognuno ha fretta di arrivare a casa per «economizzare» le sue poche ore di riposo dopo aver tratto il maggior vantaggio possibile dalle lunghe ore di lavoro. Par che ognuno sospetti nel suo vicino un concorrente. Tutti portano l’impronta dell’isolamento. L’aria morale in cui vive questa gente non è la carità, è la rivalità... Un gran numero di famiglie vivono negli alberghi, vita che condanna la donna alla solitudine e all’ozio. Lungo il giorno, il marito fa i suoi affari fuor di casa, e non rientra che all’ora del desinare, che trangugia colla rapidità d’un uomo affamato. Poi ritorna alla sua galera. I ragazzi, all’età di cinque o sei anni, frequentano le scuole, ci vanno e ritornano soli e passano il rimanente del loro tempo a loro capriccio, godendo della più ampia libertà. L’autorità paterna è pressochè nulla. I figliuoli non ricevono altra educazione che quella delle scuole.... maturano rapidamente e si preparano fin dall’infanzia alle fatiche e alle lotte della vita sovreccitata, aspra e avventurosa che li aspetta. La vita dell’uomo non è che una sola e lunga campagna, un seguito non interrotto di combattimenti, di marcie e di contro-marcie. La dolcezza, l’intimità del focolare domestico non hanno che un’assai piccola parte nella sua esistenza militante e febbrile. È egli felice? A giudicarne dal suo aspetto faticato, triste, inquieto, spesso delicato e malsano, c’è da dubitarne. L’eccesso del lavoro non interrotto gli spezza le forze, gl’interdice i piaceri dello spirito e gl’impedisce il raccoglimento dell’anima. E la donna soffre di questa vita anche più del marito. Essa non lo vede che una volta al giorno, mezz’ora tutt’al più, e la sera, quando, rotto dalla fatica, rientra in casa per cercare il sonno; e non può alleggerire il fardello ch’egli porta, nè partecipare alle sue pene, alle sue cure e ai suoi lavori perchè non li conosce, non esistendo quasi affatto fra loro, per mancanza di tempo, il commercio delle anime....» La città è Chicago, e chi la descrive il barone Hübner, grande ammiratore dall’America. Ora il dubbio è questo: non so quale delle due città, Fez e Chicago, mi faccia più compassione. Sento però che se fossi nei panni d’un moro di Fez, ed un cristiano, conducendomi in una di quelle grandi città civili, mi domandasse se l’invidio, gli farei una risata sul volto. * * * Stamattina Selam mi raccontò, a modo suo, la storia famosa del brigante Arusi; una delle infinite istorie che girano di bocca in bocca dal mare al deserto; fondata però sopra un fatto vero e recentissimo, di cui molti testimoni vivono ancora. Poco dopo la guerra colla Francia, il Sultano Abd-er Rahman mandò un esercito a castigare gli abitanti del Rif che avevano incendiato un bastimento francese. Fra i varii sceicchi, a cui il comandante dell’esercito intimò di denunziare i colpevoli, ce ne fu uno, chiamato Sid-Mohammed-Abd-el-Djebar, già innoltrato negli anni, il quale, essendo geloso d’un tale Arusi, giovane valoroso e bellissimo, lo rimise, benchè innocente, nelle mani del generale, affinchè lo conducesse nelle carceri di Fez. Fu infatti condotto a Fez, ma non stette in prigione che un anno. Rilasciato in libertà, andò a Tangeri. Stette qualche tempo a Tangeri e poi tutt’a un tratto scomparve, e per un pezzo nessuno seppe più notizie di lui. Ma poco dopo la sua disparizione, si cominciò a parlare in tutta la provincia del Garb d’una banda di ladri e d’assassini che infestava la campagna fra Rabat e Laracce. Le carovane erano assalite, i negozianti spogliati, i caid malmenati, i soldati del Sultano pugnalati; nessuno osava più attraversare quelle terre; e i pochi che, presi dagli assassini, ne uscivan salvi, tornavano nelle città istupiditi dal terrore. Le cose durarono in questo stato per molto tempo, e nessuno era mai riuscito a scoprire chi fosse il capo della banda, quando un negoziante rifano, assalito una notte al lume della luna, riconobbe fra coloro che lo spogliavano il giovane Arusi, e ne portò a Tangeri la notizia che si sparse rapidamente per tutto il Garb. Il capo della banda era Arusi. Molti altri lo riconobbero. Egli appariva nei duar e nei villaggi, di giorno e di notte, vestito da soldato, da caid, da ebreo, da cristiano, da donna, da ulema, uccideva, rubava, spariva, inseguito da ogni parte, non raggiunto da nessuno, sempre inaspettato, sempre in un nuovo aspetto, capriccioso, feroce, infaticabile; e non s’allontanava mai dai dintorni della cittadella El-Mamora; cosa di cui nessuno capiva la ragione. La ragione era questa: il caid della cittadella El-Mamora era in quel tempo l’antico sceicco Sid-Mohammed Abd-el-Dijebar che aveva messo Arusi nelle mani del generale del Sultano. In quei giorni appunto Sid-Mohammed Abd-el-Dijebar aveva data in isposa una sua figliuola di meravigliosa bellezza, chiamata Rahmana, al figliuolo del pascià di Salè, che si chiamava Sid-Alì. Le feste nuziali erano state celebrate con gran pompa, in presenza dei più ricchi giovani della provincia, accorsi a cavallo, armati, vestiti dei loro più begli abiti, alla cittadella d’El-Mamora; e Sid-Alì doveva condurre la sua sposa a Salè, in casa

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Argomenti: grande città,    focolare domestico,    pezzo nessuno,    velo lugubre,    vantaggio possibile

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