Marocco di Edmondo De Amicis pagina 17

Testo di pubblico dominio

fumo. Era come un immenso giardino chiuso ad ogni creatura vivente. Un’aria fresca e odorosa faceva stormire leggermente le foglie della palma: unico rumore che mi giungesse all’orecchio. A un tratto, voltandomi, vidi dieci occhi spalancati fissi nei miei. Erano cinque arabi seduti sopra un masso di roccia, a pochi passi da me: lavoratori della campagna, venuti durante la notte, chi sa di dove, per vedere l’accampamento. Parevano scolpiti nella roccia medesima su cui riposavano. Mi guardavano senza battere palpebra, senza dar segno nè di curiosità, nè di simpatia, nè di malevolenza, nè d’imbarazzo: tutti e cinque immobili e impassibili, coi visi mezzo nascosti nei cappucci, che parevano la personificazione della solitudine e del silenzio della campagna. Misi una mano in tasca; quei dieci occhi accompagnarono il movimento della mano; tirai fuori un sigaro; quei dieci occhi si fissarono sul sigaro; andai innanzi, tornai indietro, mi chinai a raccogliere un sasso, e quei dieci occhi m’erano sempre addosso. E non erano i soli. A poco a poco, ne scopersi molti altri, più lontano, seduti in mezzo all’erba, a due a due, a tre a tre, anch’essi incappucciati, immobili, cogli occhi fissi su di me. Parevano gente sbucata allora di sotto terra, morti cogli occhi aperti, apparenze piuttosto che persone reali, che dovessero svanire ai primi raggi del sole. Un grido lungo e tremulo, che veniva dall’accampamento della scorta, mi distrasse da quello spettacolo. Un soldato mussulmano annuciava ai compagni l’ora della preghiera, la prima delle cinque preghiere canoniche che ogni musulmano deve fare ogni giorno. Alcuni soldati uscirono dalle tende, stesero per terra le loro cappe, vi s’inginocchiarono su, rivolti verso l’oriente; si soffregarono tre volte le mani, le braccia, la testa e i piedi con una manata di terra, e poi cominciarono a recitare a bassa voce le loro preghiere inginocchiandosi, rizzandosi in piedi, prostrandosi col viso sull’erba, alzando le mani aperte all’altezza delle orecchie, e accoccolandosi sulle calcagna. Poco dopo uscì dalla sua tenda il comandante della scorta, poi i servi, poi i cuochi; in pochi minuti la maggior parte della popolazione del campo fu in piedi. Il sole, appena spuntato sull’orizzonte, scottava. Rientrando nella tenda feci la conoscenza di parecchi personaggi assai curiosi, di cui mi occorrerà di parlare sovente. Il primo a comparire fu uno dei due marinai italiani, ordinanza del comandante di fregata, siciliano, nato a Porto Empedocle, di nome Ranni, un giovanotto di venticinque anni, di alta statura, di forza erculea, d’indole buonissima, sempre grave come un magistrato, e dotato della singolare virtù di non stupirsi di nulla, di trovar tutto naturale, come il Goe delle Cinque settimane in pallone, di meravigliarsi soltanto della meraviglia degli altri. Per lui, Porto Empedocle, Gibilterra, l’Africa, la China dov’era stato, la luna se ce l’avessero portato, erano la stessissima cosa. —Che ne dici di questa vita?—gli domandò il comandante, mentre l’aiutava a vestirsi. —Che vuol che ne dica?—rispose. —Oh bella! Il viaggio, il paese nuovo, tutto questo trambusto, non t’ha fatto nessuna impressione? Stette un po’ pensando, e rispose ingenuamente:—Nessuna impressione. —Ma come! Quest’accampamento, almeno, non è uno spettacolo nuovo per te? —Eh no, signor comandante. —Ma quando mai l’hai visto prima d’ora? —L’ho visto ieri sera. Il comandante lo guardò. —Ma ieri sera—domandò poi reprimendo la stizza—che impressione t’ha fatto? —Eh.... rispose candidamente il buon marinaio—; si capisce.... la stessa impressione di questa mattina. Il comandante abbassò la testa in atto di rassegnazione. Poco dopo entrò un altro personaggio non meno curioso. Era un arabo di Tangeri, che il viceconsole aveva preso al suo servizio, per tutto il tempo del viaggio. Aveva nome Ciua; ma il padrone lo chiamava Civo per maggiore facilità di pronunzia. Era un giovanotto grande e grosso, minchione quanto ce n’entrava, ma buono e pieno di buon volere; un fanciullone ingenuo, che a guardarlo, si metteva a ridere e nascondeva il viso. Non aveva altro vestito che una lunga e larga camicia bianca, sciolta, che quando camminava, gli sventolava addosso in una maniera ridicola, e gli dava l’aria d’una caricatura di cherubino. Sapeva una trentina di parole spagnuole, e con queste s’ingegnava di farsi capire, quando era costretto a parlare; ma col suo padrone s’esprimeva quasi sempre a gesti. Così a occhio gli avrei dati venticinque anni; ma cogli arabi è facile sbagliare. Glielo domandai. Prima si coperse il viso con una mano, poi meditò qualche momento e rispose: —Cuando guerra España.... año y medio. Al tempo della guerra colla Spagna, che fu nel 1860, un anno e mezzo; aveva dunque diciasette anni. —Che pezzo d’uomo per la sua età! dissi al vice-console. —Immenso!—rispose. Il terzo personaggio fu il cuoco dell’Ambasciatore, che ci portò il caffè; un piemontese pretto, tagliato tutto d’un pezzo in un pilastro dei portici di piazza Castello, il quale da Torino, ch’egli chiamava il giardino d’Italia, era piovuto, pochi giorni prima, a Tangeri, e non aveva ancora ritrovato sè stesso. Il pover’uomo non faceva che esclamare:—Oh che paese! Oh che paese! Gli domandai se prima di partire da Torino, non gliel’avevan detto che paese fosse il Marocco, che città fosse Tangeri. Mi rispose di sì. Gli avevan detto:—Badate, Tangeri non è Torino.—Non sarà come Torino—egli aveva pensato—; pazienza! Sarà come Genova, come Alessandria, via!—E invece s’era ritrovato in una città di quella fatta! N mes ai sarvaj! [1] E gli avevan messo ad aiutarlo due arabi che non capivano una parola di piemontese! O mi povr’om! E oltre a questo bisognava fare un viaggio di due mesi a traverso i deserti dell’Egitto! Egli prevedeva che non ne sarebbe tornato vivo. —Ma almeno—gli dissi—quando tornerete a Torino, avrete qualche cosa da raccontare. —Ah!—rispose con accento malinconico, andandosene via—che cosa si può raccontare d’un paese dove non si trovano due foglie d’insalata! Fatta colezione, l’Ambasciatore diede ordine di levare l’accampamento. Durante quella lunga operazione, alla quale lavoravano poco meno di cento persone, osservai un tratto singolare del carattere degli arabi, che è la passione smaniosa del comando. Non c’era bisogno di nessun’indicazione, per riconoscere alla prima in mezzo a quella folla confusa il capo mulattiere, il capo dei facchini, il capo dei servi delle tende, il capo dei soldati della Legazione. Chiunque era investito d’un’autorità, la faceva sentire e vedere, a proposito e a sproposito, colla voce, colle mani, cogli occhi, con tutte le forze dell’anima e del corpo. E chi non aveva autorità, coglieva ogni menomo pretesto per dare un ordine a un eguale, per illudersi d’essere qualchecosa più degli altri. Il più cencioso dei servi pareva beato di poter assumere per un momento un atteggiamento imperioso. La più semplice operazione, come d’annodare una corda o di sollevare una cassa, provocava uno scambio di grida tonanti, di sguardi fulminei, di gesti da sultano sdegnato. Persino Civo, il modesto Civo, sultaneggiava contro due arabi della campagna che si permettevano di guardar da lontano i bauli del suo padrone. Alle dieci della mattina, sotto un sole ardente, la lunga carovana cominciò a discendere lentamente nella pianura. Il console di Spagna e i suoi due compagni ci avevano lasciati all’alba; non rimanevano più con noi altre persone estranee all’ambasciata che il console d’America e i suoi figliuoli. Dal luogo dove avevamo passato la notte, chiamato in arabo Ain-Dalia, che significa fontana di vino, per le vigne che v’erano nei tempi andati, dovevamo andare quel giorno a Had-el-Garbia, di là dalle montagne che chiudevano la pianura. Per più d’un’ora si

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Argomenti: grido lungo,    immenso giardino,    unico rumore,    singolare virtù,    spettacolo nuovo

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