Marocco di Edmondo De Amicis pagina 67

Testo di pubblico dominio

fossero incisi dei caratteri; e il fatto che si trovassero là, come se ci fossero state poste perchè si vedessero dal ponte, avvalorava quella supposizione. Il capitano manifestò l’intenzione d’andar a vedere. Tutti lo sconsigliarono. Le rive del fiume erano ripidissime, il fondo tutto ingombro di pietroni acuti e molto discosti l’uno dall’altro, la corrente rapida, il macigno su cui eran le pietre, altissimo e di accesso o impossibile o pericoloso. Ma il capitano di Boccard è una di quelle testine che quando han fissato il chiodo in un’impresa rischiosa, è finita: o s’ammazzano o ne vengono a capo. Non avevamo ancora finito di dir no, ch’egli scendeva già, così come si trovava, cogli stivali alla scudiera e gli sproni, giù per la riva del fiume. Un centinaio d’arabi stavano a vedere, parte schierati sull’alto delle due rive, parte appoggiati alle spallette del ponte. Appena capirono dove il capitano voleva andare, parve a tutti così disperata l’impresa che si misero a ridere. Quando poi lo videro soffermarsi sulla sponda, e guardare qua e là in cerca d’un passaggio, credendo che gli mancasse l’animo, diedero in un’altra risata più insolentemente sonora.—Nessuno di noi,—disse un di loro ad alta voce,—è mai riuscito a salire là sopra: staremo a vedere se ci riesce un nazareno.—E certo nessun altro di noi italiani ci sarebbe salito; ma quello che ci si provava, era per l’appunto il più svelto personaggio dell’Ambasciata. Le risa degli arabi gli diedero l’ultima spinta. Spiccò un salto, disparve in mezzo agli arbusti, ricomparve ritto sopra un sasso, si rinascose, e così, di pietrone in pietrone, saltando come un gatto, strisciando, arrampicandosi, rischiando dieci volte di cader nel fiume o di spezzarsi la testa, riuscì ai piedi del macigno, e senza prender fiato, aggrappandosi a tutti gli sterpi e a tutti gli incavi, salì sulla sommità e vi si drizzò come una statua. Noi tirammo un gran respiro, gli arabi rimasero attoniti, l’onore italiano era salvo. Il capitano, da nobile vincitore, non degnò nemmeno d’uno sguardo i suoi avversarii scornati, e appena riconosciuto che le supposte pietre istoriate non erano che frantumi di calcestruzzo delle spallette del ponte, scese giù da un’altra parte, e in pochi salti riafferrò la riva dove fu ricevuto cogli onori del trionfo. Il tragitto dalla Mduma a Mechinez fu un seguito d’inganni e di disinganni ottici così singolari, che se non fosse stato il caldo soffocante, ce ne saremmo immensamente divertiti. A due ore infatti, o poco più, dall’accampamento, vedemmo lontano in mezzo a una vastissima pianura nuda, biancheggiare vagamente i minareti di Mechinez, e ci rallegrammo pensando che ci saremmo presto arrivati. Ma quella che ci pareva pianura, non era invece che una successione interminabile di vallette parallele, separate da larghe onde di terreno tutte eguali d’altezza, che presentavano l’aspetto d’una superficie continua; per cui, andando innanzi, la città si nascondeva e ricompariva continuamente, come se facesse capolino; e oltre a ciò, le valli essendo dirupate, rocciose e non attraversabili che per sentieri serpeggianti e difficili, il cammino da farsi era almeno doppio di quello che, a primo aspetto, avevamo giudicato; e sembrava che la città s’allontanasse via via che ci avanzavamo; e in ogni valle si apriva il cuore alla speranza, e sopra ogni altura si tornava a disperare, e sonavan voci alte e fioche e sospiri lamentevoli e irosi propositi di rinunzia a qualunque futuro viaggio nell’Affrica, fatto con qualunque scopo e in qualunque condizione; quando, come Dio volle, uscendo da un bosco d’olivi selvatici, ci vedemmo dinanzi all’improvviso la città sospirata, e tutti i lamenti morirono in una esclamazione di meraviglia. Mechinez, distesa sopra una lunga collina, circondata di giardini, stretta da tre ordini di grosse mura merlate, coronata di minareti e di palme, allegra e maestosa come un sobborgo di Costantinopoli, si presentava intera al nostro sguardo, disegnando le sue mille terrazze bianche sull’azzurro del cielo. Non un nuvolo di fumo usciva da quella moltitudine di case, non si vedeva un’anima viva nè sulle terrazze nè davanti alle mura, non si sentiva il più leggero rumore: pareva una città disabitata, o una immensa scena di teatro. Fu rizzata subito la tenda della mensa in mezzo a un campo nudo, a ducento passi da una delle quindici porte della città, e pochi minuti dopo ci sedemmo per saziare, come dicono i prosatori eleganti, «il naturale talento di cibo e di bevanda.» Appena eravamo seduti, uscì dalla porta della città e s’avanzò verso l’accampamento un drappello di cavalieri pomposamente vestiti, preceduti da una schiera di soldati a piedi. Era il Governatore di Mechinez coi suoi parenti e i suoi ufficiali. A venti passi dalla tenda, scesero dai loro cavalli bardati di tutti i colori dell’iride, e si slanciarono verso di noi gridando tutti insieme:—Benvenuti! Benvenuti! Benvenuti!—Il governatore era un giovane di fisonomia dolce, d’occhi neri, di barba nerissima; tutti gli altri, uomini tra i quaranta e i cinquanta, d’alta statura, barbuti, vestiti di bianco, lindi, profumati, che parevano usciti da uno scatolino. Strinsero le mani a tutti, girando intorno alla tavola a passo di contraddanza e sorridendo graziosamente, e poi si radunarono daccapo dietro al Governatore. Uno d’essi, vedendo per terra un briciolo di pane, lo raccolse e lo rimise sulla tavola dicendo alcune parole che significavano probabilmente:—Scusate: il Corano condanna il disperdimento del pane: io faccio il mio dovere di buon Mussulmano.—Il Governatore offerse a tutti l’ospitalità in casa sua, che venne acettata. Non rimanemmo nell’accampamento che i pittori ed io, ad aspettare che scemasse il caldo per andare in città. Selam ci tenne compagnia, raccontandoci le meraviglie di Mechinez. —A Mechinez ci sono le più belle donne del Marocco, i giardini più belli dell’Affrica e il palazzo imperiale più bello del mondo.—Così cominciò. E Mechinez gode infatti questa fama nell’Impero. Mechinesina è sinonimo di bella e mechinesino di geloso. Il palazzo imperiale, fondato da Mulei-Ismaele, che nel 1703 ci teneva quattromila donne e ottocento sessantasette figliuoli, aveva due miglia di circuito ed era ornato di colonne di marmo fatte venire in parte dalle rovine della città di Faraone, vicina a Mechinez, in parte da Livorno e da Marsiglia. V’era un grande alcazar dove si vendevano i più preziosi tessuti d’Europa, un vasto mercato riunito alla città da una strada ornata di cento fontane, un parco d’olivi immenso, sette grandi moschee, un formidabile presidio d’artiglieria che teneva in freno i berberi delle vicine montagne, un tesoro imperiale di cinquecento milioni di lire, e una popolazione di cinquantamila abitanti che erano considerati come i più colti e i più ospitali dell’Impero. Selam ci descrisse con voce bassa e con gesti misteriosi il luogo dov’è rinchiuso il tesoro, che nessuno sa quanto sia; ma che certo dev’essere di molto scemato dopo le ultime guerre, se pure è ancora tale da meritare il nome di tesoro.—Dentro il palazzo del Sultano,—disse,—c’è un altro palazzo, tutto di pietra, che riceve la luce dall’alto ed è circondato da tre giri di muraglie. Si entra per una porta di ferro, si trova un’altra porta di ferro e poi c’è ancora una porta di ferro. Dopo queste tre porte, c’è un corridoio basso e oscuro, dove bisogna passare coi lumi, e il pavimento è di marmo nero, le pareti nere, la vôlta nera, e l’aria ha odore di sepolcro. In fondo al corridoio, v’è una gran sala, e nel mezzo della sala, un’apertura, che mette in un sotterraneo profondo, dove trecento neri gettano quattro volte all’anno, a palate, le monete d’oro e d’argento che manda il Sultano. Il Sultano sta a vedere. I neri che lavorano nella sala sono

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Argomenti: due ore,    venti passi,    svelto personaggio,    successione interminabile,    futuro viaggio

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