Marocco di Edmondo De Amicis pagina 26

Testo di pubblico dominio

montuosa e rocciosa dove appena si può camminare. Passiamo dinanzi a una schiera di orribili vecchie quasi completamente nude, sedute in terra, con qualche fuscello e qualche pane dinanzi, che aspettano compratori. C’innoltriamo per altre strade. Ogni cento passi c’è una gran porta arcata che si chiude la notte. Le case sono per tutto nude, screpolate, lugubri. Entriamo in un bazar coperto da un tetto di canne e di rami d’albero che cascano da ogni parte. Le botteghe paiono nicchie; i bottegai, statue di cera; le merci, robuccia da ragazzi messa in mostra per burla. In ogni angolo si vede gente accovacciata, sonnolenta, attonita, triste; bambini tignosi; vecchie che non han più forma umana. Par di girare per i corridoi d’uno spedale. L’aria è pregna d’odori aromatici. Non si sente una voce. La folla ci accompagna silenziosamente come una turba di spettri. Usciamo dal bazar. Incontriamo dei mori a cavallo, dei cammelli carichi, una megera che mostra il pugno all’Ambasciatore, un vecchio santo incoronato d’alloro, che ci ride in faccia. A un certo punto cominciano a spesseggiarci intorno certi uomini vestiti di nero, capelluti, col capo coperto d’un fazzoletto turchino; i quali ci salutano umilmente e ci guardano sorridendo. Uno di essi, un vecchio cerimonioso, si presenta all’Ambasciatore e lo invita a visitare il Mellà, il quartiere degli ebrei, chiamato dagli arabi con quel nome oltraggioso che significa terra salata o maledetta. L’Ambasciatore accetta. Passiamo sotto una porta a volta, c’innoltriamo per un labirinto di vicoletti più miserabili, più luridi, più fetenti di quei della città araba, in mezzo a case che paion tane, a traverso piazzettine che paion stalle, dalle quali si vedono dei cortili che paion fogne; e da ogni parte di questo immondezzaio s’affacciano donne e ragazze bellissime, che ci sorridono e mormorano:—Buenos dias! Buenos dias! In alcuni punti siamo costretti a turarci il naso e a camminare in punta di piedi. L’ambasciatore è indignato.—Come mai,—dice al vecchio ebreo,—potete vivere in questo sudiciume?—È l’usanza del paese,—quegli risponde.—L’usanza del paese! Vergogna! E voi chiedete la protezione delle Legazioni, parlate di civiltà, chiamate i mori selvaggi! Voi che vivete peggio di loro, e avete la sfrontatezza di compiacervene!—L’ebreo abbassa il capo sorridendo come per dire:—Che strane idee!—Usciamo dal Mellà, la folla torna a circondarci. Il viceconsole fa una carezza a un bambino: molti fanno segno di meraviglia; si alza un mormorio favorevole; i soldati sono costretti a disperdere la ragazzaglia che accorre da ogni parte. Prendiamo a passo affrettato una strada deserta, la gente a poco a poco rimane indietro, arriviamo fuori delle mura in una strada fiancheggiata da fichi d’India enormi e da palme altissime, tiriamo un gran respiro, siam soli! Tale è la città d’Alkazar, chiamata generalmente Alkazar-el-Kebir, che significa «il grande palazzo.» La tradizione dice che fu fondata nel secolo duodecimo da quell’Abù-Yussuf Yacub-el-Mansur, della dinastia degli Almoadi, che vinse la battaglia d’Alarcos contro Alonzo IX di Castiglia, e fece innalzare la famosa torre della Giralda in Siviglia. Si racconta che una sera, cacciando, si smarrì; che un pescatore l’ospitò nella sua capanna, e che il califfo, riconoscente, gli fece costrurre nel luogo stesso un gran palazzo e parecchie case; intorno alle quali sorse a poco a poco la città. Fu un tempo una città popolosa e fiorente; ora è abitata da cinque mila al più tra mori ed ebrei, e poverissima, benchè ritragga qualche vantaggio dall’esser posta sulla strada delle carovane che vanno dal nord al sud dell’Impero. Ripassando vicino alla porta per cui eravamo entrati, vedemmo un ragazzo arabo di circa dodici anni che camminava stentatamente colle gambe aperte e rigide, dondolandosi in una maniera bizzarra. Altri ragazzi lo seguivano. Ci fermammo; venne verso di noi. Quando ci fu dinanzi, vedemmo che aveva una grossa spranga di ferro, lunga un par di palmi, fissata alle gambe con due anelli posti sopra la noce del piede. Era un ragazzo macilento, sudicio e di fisonomia sgradevole. L’ambasciatore lo interrogò per mezzo dell’interprete. —Chi ti ha messo quel ferro? —Mio padre,—rispose arditamente il ragazzo. —Per che motivo? —Perchè non imparo a leggere. Stentavamo a credere; ma un arabo della città, là presente, confermò la risposta. —E l’hai da quanto tempo? —Da tre anni, rispose sorridendo amaramente. Pensammo tutti che fosse una bugia. Ma l’arabo confermò la cosa aggiungendo che il ragazzo dormiva pure col ferro e che tutti in Alkazar lo conoscevano. Allora l’Ambasciatore, mosso a compassione, gli fece un discorsetto, esortandolo a studiare, a togliersi quella vergogna, a non disonorare in quel modo la sua famiglia; e quando l’interprete ebbe finito di tradurre, gli fece domandare se aveva qualcosa da rispondere. —Ho da rispondere,—rispose il ragazzo,—che porterò il ferro per tutta la vita, ma che non imparerò a leggere mai, e che son risoluto a farmi uccidere, piuttosto che a imparare. L’Ambasciatore lo guardò fisso; egli sostenne lo sguardo imperterrito. —Signori,—disse allora l’Ambasciatore rivolgendosi a noi,—la nostra missione è finita. Noi tornammo all’accampamento e il ragazzo rientrò in città col suo strumento di tortura. —Fra qualche anno,—disse un soldato della scorta,—sopra una porta d’Alkazar si vedrà spenzolare quella testa. BEN-AUDA La mattina seguente, al levar del sole, guadammo il fiume Kus, sulla destra del quale è posta la città d’Alkazar, e ci avanzammo di nuovo per una campagna fiorita, ondulata, solitaria, di cui non si vedevano i confini. La scorta s’era sparpagliata sopra un vasto spazio, in un gran numero di drappelli, che parevano altrettanti piccoli cortei di sultani. I pittori galoppavano di qua e di là coll’album e la matita in mano, a schizzar cavalli e cavalieri. Gli altri dell’ambasciata parlavano dell’invasione dei Goti, di commercio, di scorpioni, di filosofia, ascoltati avidamente dal gruppo dei servi a cavallo che ci venivano dietro. Civo prestava una particolare attenzione ai discorsi di filosofia. Hamed, invece, era tutto attento al signor Pacxot, suo padrone, che raccontava una caccia al cinghiale nella quale egli aveva rischiato la vita. Questo Hamed era, dopo Selam, il personaggio più notevole di tutta la categoria dei soldati, servi e palafrenieri. Era un arabo sui trent’anni, altissimo di statura, bruno, muscoloso, forte come un toro; ed aveva per contro un viso sbarbato, due occhi dolcissimi, un sorriso, una vocina, una grazia in tutti i movimenti, che facevano col suo corpo possente un contrasto singolarissimo. Portava un gran turbante bianco, una giacchettina azzurra e i calzoni alla zuava; parlava spagnuolo, sapeva far di tutto, piaceva a tutti, a segno che Selam, persino il glorioso Selam, n’era un tantino geloso. Gli altri pure, chi più chi meno, eran giovani belli, svegli e pieni di ossequiosa sollecitudine; tanto che quando un di noi, strada facendo, si voltava indietro, incontrava sempre tutti i loro occhioni che gli domandavano se gli occorresse qualcosa.—Peccato,—dicevo tra me,—che non ci assalti una banda di ladri, per poter vedere tutti questi lestofanti alla prova! Dopo due ore di cammino cominciammo a incontrar qualcheduno. Il primo fu un nero a cavallo, il quale teneva in mano quel piccolo bastone segnato d’iscrizioni arabe, chiamato nella lingua del paese herrez, che i religiosi danno ai viaggiatori per preservarli dai ladri e dalle malattie. Poi alcune vecchie cenciose, che portavano sulle spalle grossi fastelli di legna. Oh potenza del fanatismo! Curve com’erano, stanche, sfiatate, ebbero ancora la forza, passandoci accanto, di scagliarci una maledizione. Una mormorò:—Dio maledica quest’infedeli!—L’altra disse:—Dio ci

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Argomenti: due ore,    cento passi,    ragazzo arabo,    particolare attenzione,    nome oltraggioso

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