Storia di un'anima di Ambrogio Bazzero pagina 38

Testo di pubblico dominio

il gorgoglio e l'argento della spuma!… Guardai la terra. Amore abbracciò, sorrise, suscitò le divine armonie della Natura. La terra si popola d'animali e si veste di piante. Dall'elefante all'infusorio, dal pardo bellissimo al verme, dall'albero il più spaventoso per mole alla vegetazione microscopica, dalla rosa ch'è la regina della primavera, a quella parmenia che fa orrendi i crani insepolti, passa ed accende e trascina una corrente animatrice. Nozze perpetue nella Natura, sulla terra, nelle acque, nell'aria, sempre l'opera di una potenza ineluttabile, maga divina dalle multiformi trasformazioni. Guardai l'uomo. Amore abbracciò, sorrise, suscitò le divine armonìe dell'anime innamorate. Canti d'amore s'innalzano dalle culle, dai tetti virginali, dai talami: sorride il bambino alla mamma: erra smanioso col pensiero nei labirinti fatati dell'avvenire chi delira per un volto tra mille carissimo o per una larva azzurra figlia solo di cupida fantasia: freme al dolcissimo bacio la sposa e freme il compagno: tra i baci della febbre e la febbre dell'amore è concepito l'uomo nel ventre della madre. Nasciamo per l'amore e per l'amore viviamo!—Ama!—è il fiat divino della conservazione del mondo. Se il sole dell'amore non ci scalda il cuore negli anni della giovinezza, l'anima si agghiaccia nel dubbio e bestemmia delirando:—Chi sono io? e perchè sono?—Addio, addio, tranquille e sante illusioni di un dì! Nel dubbio voi, fanciulle, consultate e consultate lo specchio: noi, giovani, apriamo lo scrigno: nell'anima inaridita nascono i tossici della solitudine, le invidie: e le invidie per chi? O Dio! per l'amica che sciupò i fiori virginei, gittandoli nella carrozza di un milionario paralitico pei vizi; per l'amico che s'inchinò innanzi alla giumenta d'oro. Addio! È sepolta la giovinezza al suono di due campane:—Odio a noi stessi; odio al nostro destino: è sepolta desolatamente, e se ad essa si dovrebbe porre un'iscrizione, questa sarebbe—Semper pro me. La trista virilità viene innanzi con tutta la ipocrisia della posatezza. Addio!… Chi siete? Siete, o madonne, le arpie in cuffia, e la bibbia vostra è il libro dell'avere: siete, o messeri, i mestieranti e nel cuore avete la bottega la più sozza. Andate, andate per la via fatale che vi è prescritta. Nessuno avrà dolore per voi: e perchè? Ma quando comprendeste l'amore? E l'amore è fede. Venite, o tranquille e sante illusioni del futuro! O giovinetti, o giovinette, amate e fremete. Accogliete nell'anima il raggio che vibra dalle pupille intensamente fisse in voi: il cuore ribollirà nella speranza, ed esulterà trionfando:—Sono potente! E sono per amare!—Nella religione dell'amore troverete a fratelli i brutti, i sofferenti, i poveri: e farete somma carità con uno sguardo più che con tutte le limosine ufficiali: benedirete al sole, perchè è l'amore dell'universo, e scalda il cedro e scalda la muffa. Venite, o tranquille e sante illusioni del futuro! Baciatevi, o sposi, e fremete. Tra le due teste giovanili ecco la testolina di un bambino. Date fiori nei capegli a quel bambino, sulla culla ove dorme, al seno che lo nutre. Fiori nelle manine di lui che s'alzano al cielo, fiori tra gli occhi suoi e quelli della fanciulla complice dei primi pianti soavi e dei primi sorrisi consapevoli, fiori tra la sua mente e l'azzurro e cadano sulla testina di lei!…—Anche tu ami, o figliuolo? O donna, il figliuolo nostro ama! E chi non ama? E la sua vergine sorride.—Fiori alle vostre nozze…. Amore! amore! amore!…—O figliuoli, ho irrigidite le membra fatalmente. Sugli occhi posatemi un fiore, ed uno sulla pietra.—E si muore! Ma la vita fu vicenda di fiori e d'amore….—E la donna? Come volarono gli anni! La mamma, sempre santa, bellissima, felice, sempre porse fiori e sempre amore. E porge fiori alle tombe…—Andate, andate per la via fatale che vi è prescritta. Chi ama piangerà per voi. Sempre comprendeste l'amore. E l'amore è fede. E se la fede cancella il dolore a poco a poco è dono d'Iddio. Dico a voi che piangete, a voi che sorridete, . . . . . . . . . . . . . . . . . . Foglietto II: Confessioni. Foglietto III: A mia sorella. Foglietto
IV….
* * * —Perchè non legge più, marchesa? —Mio Dio!… perchè…. sa lei?… Sono commossa…. —Ha gli occhi rossi. —Non so…. Ho paura che ci arrivi una brutta notizia…. È un presentimento: chi ha scritto queste cose si è gittate in mare…. Temo…. Perchè furono sparsi quei foglietti sull'acque?… Temo un suicidio…. Chi può avere scritto? —Si ricorda, marchesa, di quell'artista che a Vado andò in omnibus, chiacchierò tanto e poi perdette l'albo? Il vento l'avrà portato al mare, quell'albo, l'avrà sfogliato, disseminando le confessioni su per l'acqua…. Si ricorda di quel poverino? —Era ubbriaco! POESIA. Porto di Genova. O Zena procace, dall'Aquasola dominatrice del mare e dei colli di Albaro e degli orti del Bisagno! Zena, gemmata di ville da Portofino ad Arenzano, sullo sfondo degli argentei uliveti o delle montagne boscose, con tanto azzurro di cielo da darlo a scialacquare a mille poeti! Zena, aperta al libeccio che da Spagna ancora spira l'alito infocato dell'arabe fanciulle nel sangue de' tuoi figli Sabazi, internali, ingauni e genuati. Zena, consolata dai ponentelli freschissimi puritani, bruna donna di Lerici, bionda etrusca di Sarzana, Janua antica, perfino le tue fortificazioni mi sembrano fascie e corone d'amore alle pendici caldissime! Quante volte io volli sapere, più che la tua fastosa voluttà, la tua potenza! E seppi che Filippo Visconti, quando l'ebbe nelle spire della sua biscia, si credeva già signore d'Italia. Il duca d'Alba vedeva l'occupazione tua come la base ad una monarchia saldissima. Se il duca di Zenua ti avesse aunghiato per la Spagna! Il signor Le Noble scriveva a Luigi XIV: «Genova e Marsiglia unite sotto lo stendardo dei fiordiligi darebbero legge a Cadice e ai Dardanelli, terrebbero la Barberia in forzato rispetto e farebbero tremare il sultano nel suo stesso serraglio di Costantinopoli.» Ma non so più leggere. Quando il luglio è implacabile coi suoi trenta gradi, io fuggo le morte biblioteche. Io voglio l'aria, il cielo, il mare! Io voglio amare!… Amo voi, o marinai di Zena, che storicamente ancora intarsiate nel vostro dialetto tante parole arabe, spagnuole, greche e francesi; amo voi, o vele, o chiglie, o coste rivestite di bordature, impernate, calafatate, colle fodere di rame, o alberature sorelle! Ah! so che colle vostre bestemmiacce, colle tinte sudice e coi rappezzi grossolani come quelli sulle tonache dei frati, colle corde bisunte, colla cifra fatta in catrame e la solita [ancora] GENOA, coll'odore di mare salato, voi fugate la poesia a mille miglia lontano a rimbellettarsi su qualche paio di labbra di corallo, a incipriarsi su qualche collo d'alabastro…. Ho detto la poesia? Ho sbagliato: dovevo dire la Nonna poesia: quella in cuffia, colla tabacchiera e il mazzo dei tarocchi lì sul tavolo: è titolata, sfoggia genealogia e stemmi, e nulla fa di bene se non ha le rose dell'aurora, le polite pieghe del peplo, le note della lira, il profumo dell'olimpo: cinguetta coi poeti e i professoroni ufficiali, è pettegola e si liscia. Via! di codesta donna marchesaccia siamo stufi. C'è una bella scapigliata, con grand'occhi acuti, senza rimario sotto le ascelle, senza svolazletti, la penna d'oca e l'elmo di Minerva, c'è una giovinetta che s'asside anche all'ombra delle vele, viaggia coi marinai e mangia il pane duro, conta i soldi e canta Dio e il mare. È la vera poesia. E Natura, diffondendola in ogni atomo delle cose create, non le disse mai:—Sarai aristocratica: sarai democratica,—ma le impose:—Non mentirai! Voglio conoscere la potenza di Genova? Vado a gustare la grandiosa poesia del suo Porto. Il molo vecchio costrutto da Marino Boccanegra nei faustissimi giorni del Comune, il nuovo d'Ansaldo di Masi, la Lanterna su cui si accesero i

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Argomenti: due teste,    fiat divino,    molo vecchio

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