La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 30

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ribatteva questa parola dentro il cervello, senza tuttavia riceverne alcun senso di necessità. Gli pareva di camminare, ed era sempre fermo, gli pareva d'esser giunto presso il cadavere, di sollevarlo, ed un senso d'orrore lo faceva retrocedere, senza che si fosse mosso. Mentre così perplesso vacillava cercando di riafferrare la sua volontà impossente, parvegli udir rumore. Si risovvenne di quegli usci aperti e l'istinto fisico della propria salvezza fu quello che lo sospinse. In un baleno, si curvò sul morto... ma gli stridevano i denti; le braccia gli si erano indurite nelle giunture, pesavano come fosser piombo, e gli doleva d'un dolore acuto, fra vertebra e vertebra, la spina dorsale. Però s'era detto e si diceva: — «O ch'io lo porti, o ch'io muoia!» S'inginocchiò: fece, nel sollevarlo, uno sforzo maggiore del necessario, ed il corpo scosso gli traballò contro il petto, quasi cercasse d'avvinghiarlo in un abbraccio macabro. Aveva contro la bocca una spalla del morto, ed uno di quei gomiti acuti gli premeva su le costole come per resistere alla sua stretta brutale. Sentiva su l'avambraccio il peso del capo riverso, e su lo stinco e sul polpaccio, mentre s'alzava, i colpi di quei calcagni penzolanti. — «Lo porto! lo porto!» Chiudeva gli occhi per terrore; li apriva per veder la strada. — «Così lieve? No, così greve. — Perchè ragiono? — Avanti! Passeremo per l'uscio? — Sì, di sghembo. — E se cade?...» Allora serrava le braccia. Gli sembrò che il morto lasciasse nella poltrona qualcosa di sè. Pur tenendolo forte, si volse a guardare. Duplice lo rivide: com'era innanzi e com'era, supino, sul catafalco delle sue braccia. In quel momento s'accorse di non tremare più; fece un passo, poi un altro, poi molti, e pose un'attenzione estrema nel non urtare contro l'uscio. Diceva continuamente, a fior di labbro, quasi per aiutarsi nell'opera: — «Sì, sì, sì...» Sporse prima il capo del cadavere, indi passò con tutto il corpo. Nel corridoio bisognava camminar obliquamente, ma la strada era facile. «Sì, sì...» E nell'andare gli venne in mente che Marcuccio era innamorato della Berta... Ogni tanto i calcagni duri battevano contro la sua coscia; quel gomito confitto nel suo petto gli dava estremamente noia. Non poteva ben comprendere se andasse in fretta o piano, ma la strada gli parve lunga, e non trovava l'uscio. Tuttavia, dalla soglia di quella camera una velata chiarità filtrava nel corridoio notturno, ed egli finalmente la vide. — «Sì, sì...» Gli sporse dentro i piedi, quindi passò con tutto il corpo; l'adagiò malamente sul letto e si volse rapido a rinchiuder l'uscio. Una specie d'ilarità silenziosa gli eruppe dall'anima; quasi ebbe voglia di beffarsi del suo terrore vinto; si toccò, una dopo l'altra, le braccia, poi la fronte, ch'era un po' sudata. — «Salvo!» — «Non ancora, — gli suggerì la voce: — svéstilo.» Già, bisognava svestirlo. Doveva essere morto nel suo letto, senza urlo, solo. — «Svèstilo» — «Sì, lo faccio, guarda: ora è facile!» Il morto era coricato in obliquo su la larghezza del letto; le gambe sovrapposte gli pendevano in fuori. Egli s'inginocchiò su lo scendiletto e gli tolse le scarpe, adagio, come se avesse tempo da perdere; gli tolse anche le calze, e con ordine le ripose dov'erano di consueto. Una bella striscia di luna rischiarava meglio di un candelabro; in quel chiarore azzurro si vedeva ogni cosa distinta, ma quasi ravvolta in un contorno d 'irrealità. Gli sbottonò i calzoni, glieli tolse, dopo averlo sollevato con fatica; li piegò, li mise a cavalcioni d'una seggiola, dov'egli era solito porli quando si ricoricava. Non s'era messo mutande: le due gambe giallastre, aride come due lunghi batacchi, percorse da un rilievo di tendini che parevan funi tese, erano fredde di quel freddo particolare che si distingue da ogni altro, ed al quale non v'è parola che somigli tranne la parola: «morte». Le due ginocchia parevano intorneate da una chiazza d'ombra; le cosce ischeletrite, simili a quelle d'un paralitico, mostravan più dell'altre membra i segni della consumazione. Ed egli, che lo svestiva ormai senza paura, s'indugiò per un attimo a considerare quella virilità estinta, rievocando nel bagliore d'un lampo l'immagine sensuale della donna che il morto aveva posseduta. Gli sembrò ch'ella stesse con loro, muta, in un angolo, e si svestisse ignuda, sbarrando i suoi chiari occhi pieni di voluttà per assistere in tutta la sua bellezza all'epilogo della lor tragedia umana. Egli traeva da questo pensiero un tale senso di ribrezzo e d'ansietà, che ne aveva l'anima oppressa; e tuttavia perdendo la nozione del tempo, gli pareva di poter compiere quella sua lugubre faccenda con la maggiore lentezza. Si preparava oculatamente un alibi morale, badando a non scordare la più piccola cosa, a non lasciare in quella camera dove Giorgio doveva esser morto alcunchè d'inspiegabile o d'inconsueto. Allora, sbottonatagli la giubba, sollevò il cadavere, prima sovra una spalla, poi su l'altra, poi su entrambe insieme, per fargli uscire dalle maniche le braccia che incominciavano ad essere, non solo inerti, ma rigide. Questa operazione gli prese tempo; ed anzi egli rischiò di lacerare la stoffa. Ma quando l'ebbe finalmente liberato da quella casacca di lana, ed il morto fu rimasto in camicia, egli provò novamente un senso di liberazione, poichè gli pareva d'esser vicino al termine del suo crudele officio. Ormai non gli rimaneva che da stenderlo sotto la coltre e comporre il letto come se naturalmente vi fosse morto. Ma una voce interiore gli consigliava senza tregua: — «Osserva, osserva bene...» — quasi per evitargli una distrazione possibile, una di quelle minime dimenticanze che son talvolta la chiave de' più oscuri delitti. Egli faceva, nel riflettere, una certa fatica, uno sforzo quasi muscolare nel convergere tutta la propria attenzione su questo solo intento, mentre per istinto il suo pensiero cercava di sbandarsi altrove. Allora egli andò verso la finestra, per esaminare nella maggior luce quella casacca di lana, quasi ch'ella potesse conservare un segno qualsiasi, un'impronta, una macchia di bava, uno strappo, un odore indefinibile, una piega. L'esaminò per tutti i versi, più volte, l'odorò: sprigionava un sottile odor di canfora, e null'altro, si ch'egli si mise a riflettere dove l'infermo la tenesse di consueto. — «Nell'armadio, mi pare... Sì, nell'armadio, piegata... non ti ricordi? — Infatti.» Allora la piegò di rovescio, con le maniche in dentro, poi nel mezzo, indi, appianatala come si conviene, andò all'armadio, e la ripose ove si ricordava benissimo di averla tante volte veduta. Nel frattempo s'accorse di ansar forte; allora cominciò a fischiettare, piano piano, fra i denti, come per accompagnare la sua faccenda e far qualcosa che gli paresse naturale. Rinchiuso lo sportello, si guardò in giro. Non rimaneva più nulla da fare, tranne che occuparsi del letto e del cadavere buttatovi sopra di traverso. Con la fronte raccolta in una mano, cercò d'immaginare come lo avrebbe ritrovato il mattino, entrando, se davvero durante la notte, senz'alcun testimonio, si fosse spento. Non gli riusciva di vederlo bene, anzi lo vedeva in mille guise. Allora cercò di raffigurarsi nella sua memoria di medico altre morti che fossero avvenute in congiunture simili. Certe fisionomie di cadaveri, dimenticate da tempo, gli si affacciarono alla mente, quasi fossero sembianze note. — «Si muore in tanti modi...» — pensò. Poi gli parve inutile riflettere e non volle frapporre altro indugio. S'avvicinò al letto. Siccome le coltri erano già rimboccate, non durò fatica nel farle scorrere sotto il corpo giacente, per poterlo distendere fra i due lenzuoli. Diede una spiumacciata sui due cuscini, e, preso il cadavere per le caviglie, sollevò le gambe su la proda, indi sospinse tutto il corpo nel mezzo del letto e

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Argomenti: sforzo maggiore,    chiarore azzurro,    voce interiore,    lugubre faccenda

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